Tra dissoluzione dell’autorità tradizionale e coscienza della civiltà cristiana

Tra dissoluzione dell’autorità tradizionale e coscienza della civiltà cristiana

GIOVEDÌ PROSSIMO RICORRERÀ LA MEMORIA LITURGICA DI TOMMASO D’AQUINO, SANTO E DOTTORE DELLA CHIESA. IL SUO RAPPORTO CON FRANCESCO PETRARCA, NELL’ARTICOLO DI UN GIOVANE FILOSOFO VENETO, ANDREA MENEGHEL…

Di Andrea Meneghel

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Nell’apparente dissoluzione dell’autorità tradizionale, nasceva nei popolosi comuni del XII secolo la tentazione di gettare dalla finestra le inveterate istituzioni ecclesiastiche, con l’immancabile corredo di corruzione e stravizi, anche a costo di sentire presto bussare alla porta nientemeno che l’eresia.

Le sette che praticavano forme estreme di disprezzo della carne apparivano per le strade quali spettri vaganti, invitando a rinunciare al mondo e assumere usanze di vita claustrali come mezzi di espiazione.

Abbandoni disperati al piacere dei sensi da parte della moltitudine ed eroici ma isolati esempi di virtù ascetica erano i due estremi fra i quali intendiamo includere le opzioni di vita etica praticabili nei primi secoli del millennio.

La coscienza della civiltà cristiana implorava, implicitamente attraverso la miseria del suo declino o esplicitamente con l’elevazione di immense cattedrali al Cielo e devote preghiere, l’uscita definitiva dalla crisi integrale dei secoli di mezzo.

Non v’è da stupirsi che si infittisse allora la ventosa selva di profezie sull’imminente Ritorno di Cristo, Giudizio Universale e Fine dei Tempi, fra le quali merita annoverare almeno il gioachimismo, noto ai nostri secoli per quel frutto letterario vivacissimo e colorito che fu la Cronica di Salimbene.

Sorgendo e inabissandosi con ritmo quasi regolare come le onde del mare, queste innumerevoli voci ottennero l’effetto opposto di esasperare la coscienza borghese e disporla all’appetito di una nuova concezione della vita, e così: “All’ombra delle torri nascenti, presso le stridenti officine, continuarono a scontrarsi due diversi dotti: sempre in tonaca o in cocolla, quello della ratio umanistica scendeva dai monasteri all’operosa città per riconsacrarvi il sentimento etico della tradizione latina, senechiana e virgiliana; qualche volte in tonaca, qualche volta in turbante, con sotto il braccio i testi dell’Ellade riscoperta, arrivava invece il dotto della ratio naturalistica. Nel loro dibattito si continuava l’altro tra i Cornificiani e il Salisbury, ma nei nuovi naturalisti vi era un progressivo risalire dai problemi dell’individuo ai problemi della convivenza sociale” (G. Toffanin, Storia dell’Umanesimo, Zanichelli, Bologna 1920, vol. I, p. 78).

Sant’Agostino, nutrito di sapienza classica, aveva risolto per il contemptus mundi con maggior equilibrio di quanto non fecero gli agostiniani del secolo XII in pia difesa del primato dello spirituale contro le facili derive del razionalismo naturalista, che andava verminando presso il nascente ceto borghese, comunale, mercantile e anticlericale, rivolto con estrema simpatia e senso pragmatico alla nuova scienza dialettica. Nulla si risolse, come era prevedibile, trasfigurando la vita in senso intensamente drammatico, minacciando le pene dell’inferno ad ogni piè sospinto come se la più piccola macchia fosse un delitto contro la Divinità.

Così mentre i San Bonaventura, i San Bernardo sollevavano gli occhi lacrimanti al cielo per contemplare Dio e la Vergine, amandoli con tutto il loro santo zelo, e riportare sulla terra qualche scintilla di quell’infinita beatitudine, tenendo tuttavia sotto controllo gli accessi degli infiammati predicatori, degli eremiti e degli asceti, i naturalisti potevano muovere guerra ai Padri esibendo tronfiamente alle folle bercianti Hippocratem aut Galenum. Lo iato fra spiritualismo, humanitas e nuovo fervore scientifico, nelle cui latebre spesso potevano insediarsi e proliferare tumultuose passioni politiche oltreché interessi economici privati, pareva insanabile e possiamo immaginare che nella mente dei contemporanei, così rapida alle trasfigurazioni in senso religioso dei fatti dell’esistenza, assumesse i connotati di un’apocalittica battaglia fra angeli e demoni, con conseguente distribuzione di premi e condanne e identificazioni per ovvie ragioni opposte nei rispettivi schieramenti.

Il punto archimedeo sul quale il ceto borghese premeva con ogni forza per favorire la propria ascesa fu la vita politica dei Comuni, che costellavano la nuova realtà territoriale italiana, con ogni annesso organo di governo, corporative di mestiere, gilde e uffici pubblici che permettevano notevoli possibilità di guadagno ai ceti cittadini che riuscivano a emergere dalla competizione per il controllo delle cariche. Questa sete di conquiste civili è visibile ancora oggi nella struttura urbana delle più famose città italiane, nella loro ramificazione stradale convergente nei “due fuochi” – ossia il Duomo e il Palazzo del Comune – e ancor più nel profilo turrito che si impone allo sguardo del viaggiatore e molte volte finisce per simboleggiare la città stessa.

La società promuoveva dal suo interno una totale riorganizzazione della vita civile e lavorativa: alla base non si collocava più una schiera di servitori ma una indaffarata turba di artigiani cittadini e piccoli commercianti; nel mezzo gli ecclesiastici e i notabili; al vertice la rampante borghesia, superata sì in dignità da tiare e corone, ma di fatto indipendente da esse grazie alle ricchezze accumulate.

Come le torri non esaurivano la loro funzione con la sola esigenza di difesa estrinseca, ma tutelavano un secondo ordine di ragioni legate al prestigio intrinseco delle famiglie, così valeva per le professioni, i titoli e soprattutto l’erudizione: mai come in questo periodo il culto delle Lettere finalizzato all’elevazione morale dell’uomo, e alla sua Salvezza, rischia di rimanere subordinato all’estro pragmatico del nuovo ceto, affamato di nozioni tecniche e competenze pratiche per condurre attività di profitto economico e politico.

La mondanità viveva una sua peculiare rivincita dopo secoli di oppressione, si rivalutava non solo la conoscenza empirica ma tutta la dignità del corpo umano.

Un secolo, il XIII, che per ovviare alla densità di avvenimenti fra loro concorrenti è stato battezzato in diversi modi: dei Comuni, della filosofia e in ultimo, e pour cause, il Secolo senza Roma.

Con la Romfhart di Enrico VII di Lussemburgo si esaurisce la spinta propulsiva di un’epoca e si inaugura simbolicamente la successiva, nata sulle ceneri dell’antica: si attenuano le interferenze dell’Impero germanico sui comuni d’Italia, ma le nuove conquiste dell’Umanesimo varcano i confini delle Alpi, confermando una seconda volta che il regno di Cicerone è più longevo di quello di Cesare.

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