Giovanni Paolo II, il Papa del Cristocentrismo della speranza e del perdono
PER PROCLAMARE LA CENTRALITÀ DI CRISTO E LA DIGNITÀ DI OGNI UOMO SAN GIOVANNI PAOLO II ADOTTO’ IL “METODO DEI VIAGGI”
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Di Don Gian Maria Comolli*
Giovanni Paolo II, al secolo Karol Wojtyla, fu Papa dal 1978 al 2005. Domenica 22 ottobre 1978, dal sagrato di Piazza San Pietro, il nuovo Papa si rivolse così al mondo annunciando il suo programma: «Fratelli e sorelle! Non abbiate paura di accogliere Cristo e di accettare la sua potestà!… Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo! Alla sua salvatrice potestà aprite i confini degli Stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo. Non abbiate paura! Cristo sa ‘cosa è dentro l’uomo’. Solo lui lo sa!”. E concluse: “Permettete, quindi – vi prego, vi imploro con umiltà e con fiducia – permettete a Cristo di parlare all’uomo. Solo lui ha parole di vita, sì! di vita eterna».
Quelle parole appaiono la fuoriuscita da un cattolicesimo tombale, impaurito e sperduto. È giovane e forte il nuovo pastore che comunica sicurezza, fiducia, audacia, lontanassimo dalla fisicità esile, timida e fragile dei suoi due predecessori. Poi, in quella mattina mite dell’ottobre romano, al termine della celebrazione il Pontefice impugnò con tutte e due le mani la croce pastorale, innalzandola come un vessillo riscattato, come segnale che era tempo di chiamare a raccolta il Popolo di Dio. Giovanni Paolo II, il suo Cristocentrismo, lo esprimerà compiutamente nella prima Enciclica, la “Redemtor Hominis” che, come tale, fu la fonte di tutto il suo Magistero. Partendo da Cristo «la via principale della Chiesa» Wojtyla guardava subito all’uomo, «la prima strada che la Chiesa deve percorrere nel compimento della sua missione». Su questa via, ripeteva il Papa, «la Chiesa non può essere fermata da nessuno».
Per proclamare la centralità di Cristo e la dignità di ogni uomo san Giovanni Paolo II adotterà soprattutto il “metodo dei viaggi”. 104 internazionali in 26 anni oltre a quelli in Italia.
Papa Wojtyla fu inoltre il Pontefice della speranza e invitò tutti a «varcare la soglia della speranza» intesa come virtù umana e teologale. Ma un appello particolare lo riservò ai giovani, il futuro del mondo, organizzando le Giornate Mondiali della Gioventù (GMG).
Infine, Giovanni Paolo II, riprendendo la distinzione tra “Persone” della Chiesa e “Personale” della Chiesa, per primo nella storia mise questa Istituzione di fronte al suo passato, alle sue responsabilità e, in suo nome, varie volte, chiese e invocò perdono. «Anche i membri della Chiesa – disse a Strasburgo l’8 ottobre 1988 – hanno le loro debolezze. Noi siamo la Chiesa, voi ed io!». Gli altri non hanno chiesto perdono, ma al Papa non importò mai: «E’ interessante che solo sempre il papa e la Chiesa chiedono perdono, mentre gli altri restano in silenzio. Ma forse, è giusto così», affermò ai giornalisti durante uno dei suoi viaggi.
Nell’Enciclica sociale Laborem Exercens (“Nel realizzare il lavoro”) Giovanni Paolo II rievocò i novant’anni dalla Rerum Novarum. Il documento fu pubblicato però non nel giorno preciso dell’anniversario, il 15 maggio 1981, bensì il successivo 14 settembre causa dell’attentato di cui rimase vittima il 13 maggio.
Laborem Exercens è la prima enciclica dedicata totalmente al lavoro, o meglio “all’uomo” che esercita il lavoro. Giovanni Paolo II nello stendere il testo fece tesoro del suo vissuto personale e delle vicende del periodo storico. Cioè l’esperienza giovanile da lavoratore, l’essere cresciuto in un regime comunista, la sua conoscenza dei sistemi capitalistici e, da ultimo, la nascita nel 1980 del sindacato polacco Solidarnosc, costituitosi a seguito delle manifestazioni operaie nei cantieri navali del baltico e nelle acciaierie di Nova Huta e Cracovia.
L’enciclica, dopo un’introduzione, è divisa in quattro parti. Il lavoro e l’uomo; Il conflitto tra lavoro e capitale nella presente fase storica; Diritti degli uomini del lavoro; Elementi per una spiritualità del lavoro. Il documento ebbe come primo obiettivo quello di far riscoprire «i nuovi significati del lavoro umano» e, di conseguenza, formulare «i nuovi compiti che in questo settore sono posti di fronte a ogni uomo, alla famiglia, alle singole Nazioni, a tutto il genere umano e, infine, alla Chiesa stessa».
Il lavoro, ricorda il Papa, è un elemento costituivo dell’uomo che lo supporta nella sua realizzazione. Giovanni Paolo Il distingue due aspetti del lavoro: quello oggettivo, cioè la tecnica, e quello soggettivo, ossia il soggetto che lo esercita, ovvero l’uomo. Per questo afferma: «Come persona, l’uomo è il soggetto del lavoro». Nel lavoro la persona scopre la sua dignità poiché l’operatio Dei lo contraddistingue da ogni altra creatura consentendogli di partecipare all’opera creatrice divina. Ciò è riassunto nell’affermazione: «L’uomo, mediante il lavoro, deve procurarsi il pane quotidiano e contribuire al continuo progresso delle scienze e della tecnica, e soprattutto all’incessante elevazione culturale e morale della società, in cui vive in comunità con i propri fratelli». Da qui la condanna di quello che mette a rischio la gerarchia dei valori, ad esempio riducendo il lavoro a mero strumento di produzione, o quando è valutato unicamente secondo i criteri del mercato.
Il conflitto che il Papa rileva nel suo tempo è quello «ideologico tra il liberalismo, inteso come ideologia del capitalismo, e il marxismo, inteso come ideologia del socialismo scientifico e del comunismo». Giovanni Paolo II, offre al termine “capitale” un’interpretazione ampia racchiudendo in questo termine gli investimenti nei mezzi di produzione, la figura del proprietario, le conoscenze, le tecnologie e le risorse naturali. E immediatamente dopo chiarifica i rapporti tra lavoro, proprietà e capitale affermando che «la proprietà si acquista prima di tutto mediante il lavoro perché essa serva al lavoro […]. Quanto ai mezzi di produzione, non possono essere posseduti contro il lavoro, né essere posseduti per possedere, perché l’unico titolo legittimo al loro possesso – e ciò sia nella forma della proprietà privata, sia in quella della proprietà pubblica o collettiva – è che essi servano al lavoro».
Quali sono i diritti più importanti per il lavoratore? Anzitutto quello ad avere un lavoro dignitoso, che lo Stato e la società realizzano operando contro la disoccupazione che «può diventare una vera calamità sociale». Poi il diritto a una giusta remunerazione e ad altre previdenze sociali. E qui, il Papa, rivaluta il ruolo femminile di donna e di madre. Dopo aver preso atto che la donna e ormai occupata in quasi tutti i settori della vita societaria, osserva: «La vera promozione della donna esige che il lavoro sia strutturato in tal modo che essa non debba pagare la sua promozione con l’abbandono della propria specificità e a danno della famiglia, nella quale ha, come madre, un ruolo insostituibile». Riconferma l’importanza dei sindacati e sollecita che le persone disabili abbiano «il diritto alla preparazione professionale ed al lavoro».
La parte più originale riguarda infine la “spiritualità” del lavoro. Di cosa si tratta? Così risponde il Papa: «La Chiesa ha un suo dovere particolare nella formazione di una spiritualità del lavoro, tale da aiutare tutti gli uomini ad avvicinarsi per il suo tramite a Dio, Creatore e Redentore, a partecipare ai suoi piani salvifici nei riguardi dell’uomo e del mondo e ad approfondire nella loro vita l’amicizia con Cristo». E indica tre strade per l’approfondimento: il lavoro come partecipazione all’opera del Creatore; Cristo, l’uomo del lavoro; il lavoro umano alla luce della croce e della risurrezione di Cristo.
Concludiamo con il paragrafo 26 poiché offre al lettore degli elementi di riflessione affinché svolga il proprio lavoro quotidiano seguendo l’esempio del Signore Gesù: «Questa verità, secondo cui mediante il lavoro l’uomo partecipa all’opera di Dio stesso suo Creatore, è stata in modo particolare messa in risalto da Gesù Cristo – quel Gesù del quale molti dei suoi primi uditori a Nazareth ‘rimanevano stupiti e dicevano: ‘Donde gli vengono queste cose? E che sapienza è mai questa che gli è stata data? … Non è costui il carpentiere?’ (Mc. 6,2ss). Infatti, Gesù non solo proclamava, ma prima di tutto compiva con l’opera il Vangelo a lui affidato cioè la parola dell’eterna Sapienza. Perciò, questo era pure il “Vangelo del lavoro”, perché chi lo proclamava, era egli stesso uomo del lavoro, del lavoro artigiano come Giuseppe di Nazareth. E anche se nelle sue parole non troviamo uno speciale comando di lavorare – piuttosto, una volta, il divieto di un’eccessiva preoccupazione per il lavoro e l’esistenza (cfr. Mt. 6,25-34) -, però, al tempo stesso, l’eloquenza della vita di Cristo è inequivoca: egli appartiene al “mondo del lavoro”, ha per il lavoro umano riconoscimento e rispetto; si può dire di più: egli guarda con amore il lavoro, le sue diverse manifestazioni, vedendo in ciascuna una linea particolare della somiglianza dell’uomo con Dio, Creatore e Padre. Non è lui a dire: “Il Padre mio è il vignaiolo” (Gv. 15,1), trasferendo in vari modi nel suo insegnamento quella fondamentale verità sul lavoro, la quale si esprime già in tutta la tradizione dell’Antico Testamento, iniziando dal Libro della Genesi?».
*Don Gian Maria Comolli, ordinato sacerdote nel 1986, da trent’anni è cappellano ospedaliero. Dopo aver conseguito un dottorato in Teologia, una laurea in Sociologia ed aver frequentato diversi master e corsi di perfezionamento universitari, attualmente collabora con l’Ufficio della Pastorale della Salute dell’arcidiocesi di Milano ed è segretario della Consulta per la Pastorale della Salute della Regione Lombardia.
Testo pubblicato per gentile concessione dell’autore (tratto dal blog: www.gianmariacomolli.it).