Senza il diritto alla proprietà privata non c’è autentica libertà

Senza il diritto alla proprietà privata non c’è autentica libertà

Di Matteo Castagna

Nell’enciclica Rerum novarum del 1891, Sua Santità Leone XIII avvertiva che il diritto alla proprietà privata non può mai essere inteso in senso assoluto, tuttavia sottolineava che, “affrancando l’uomo dalla precarietà, il diritto di proprietà è la condizione di una libertà reale”.

La Chiesa ha sempre mantenuto inalterata questa linea, anche quando, nel corso del tempo si sono verificati periodi difficili e crisi economiche. La denuncia sia del comunismo sia del liberismo, in nome del principio di sussidiarietà, non ha mai intaccato il diritto alla proprietà privata, in quanto, senza di essa, non c’è autentica libertà.

Sua Santità Pio XII, a mezzo secolo dalla Rerum novarum, ricordò che compito della Chiesa non è proporre sistemi sociali ed economici, ma “giudicare se le basi di un dato ordinamento sociale siano in accordo con l’ordine immutabile, che Dio creatore e redentore ha manifestato per mezzo del diritto naturale e della rivelazione”.

Il vaticanista Aldo Maria Valli ricorda, a ragione, che la chiave è l’equilibrio. “Senza dubbio – insegnava Pio XII – l’ordine naturale, derivante da Dio, richiede anche la proprietà privata e il libero reciproco commercio dei beni con scambi e donazioni, come pure la funzione regolatrice del potere pubblico su entrambi questi istituti”.

Anche io, come Valli, sono sempre rimasto colpito dall’ultima parte della parabola del Buon Samaritano, quando egli chiede all’albergatore di prendersi cura del viandante: “Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all’albergatore, dicendo: abbi cura di lui e ciò che spenderai in più te lo rifonderò al mio ritorno”.

In queste parole, c’è un’evidente insegnamento di “economia politica” che ci viene direttamente dalle parole di Gesù: il samaritano, infatti, non fa tanti bei discorsi sull’assistenza, non filosofeggia di socialismo reale, ma mette mano al portafoglio.

Non si appella alla burocrazia assistenziale, come farebbe la sinistra globalista o come insegnerebbe certo buonismo curiale in salsa Ong, ma estrae due denari.

Il samaritano può essere tanto buono e caritatevole, e può dare efficacia alla sua scelta morale, perché ha disponibilità economica, che non avrebbe potuto realizzare se fosse stato un poveraccio.

Ed è per questo che l’ode del pauperismo non può essere di matrice cattolica, ma è ideologia veterocomunista, tanto ipocrita quanto poco credibile.

San Tommaso d’Aquino ha trattato l’argomento nella Summa Theologica (STh 2-2, q.66, a.1-2 ) facendo derivare le sue logiche considerazioni da quelle di Aristotele.

Nel trattato di teologia morale, dopo essersi soffermato a esaminare la giustizia, l’Aquinate passa all’esame dei peccati contro questa virtù. Decide di iniziare dai casi di danni inferti al prossimo nelle cose. Dunque, per occuparsi della iustitia occorreva stabilire il ruolo dello ius (diritto), così la quaestio dedicata al furto e alla rapina doveva cominciare dalla disamina del possesso e della proprietà. Il superamento della difficoltà rilevata occorrerebbe rintracciarlo nella distinzione dei due modi di intendere i beni: la loro natura non è soggetta al potere dell’uomo; altra cosa è il loro uso. Il teologo può affermare: Iddio, il quale signoreggia sulle cose, ha messo sotto i piedi degli uomini tutto ciò che fa parte della natura (cfr. Sal 8, 7) perché ha fatto di essi lo scopo della creazione. Tuttavia, pur senza far richiamo alla sanzione soprannaturale, è facile rilevare che l’uomo padroneggia naturalmente sui beni, in questo senso; che grazie alla sua ragione e volontà può servirsi di essi per il proprio vantaggio (ad suam utilitatem), come se fossero creati proprio per lui.

San Tommaso ha voluto richiamare l’argomento di Aristotele; che le cose meno perfette servono sempre ai più perfetti e questo, secondo entrambi i pensatori, univocamente sta a favore della tesi che il possesso dei beni è cosa naturale per l’uomo. Questi non è il creatore della loro natura, ma per loro natura, possono servire ad appagare i propri bisogni congeniti.

Da un lato, in effetti, la proprietà non è naturale per l’uomo, nel senso che lo ius naturale non definisce la divisione giuridica del potere sui beni messi a disposizione dell’uomo. La divisione si effettua soltanto sulla base delle regolamentazioni assunte ossia dello ius positivum.

Di qui scaturisce che la proprietà non è in opposizione al diritto naturale ma lo completa grazie alle deduzioni della ragione umana. Un immobile concreto per se stesso non esige che sia proprietà di qualcuno.

Tuttavia, la considerazione sull’uso sicuro di esso o sulla coltura dei campi consente di riconoscere che dovrebbe essere pertinente piuttosto a questa persona anziché a un’altra. D’altro canto, non c’è dubbio che il trattenere dei beni in proprietà sia addirittura necessario per la vita degli uomini.

Ognuno ha una cura migliore delle proprie cose. Allorché la proprietà appartiene a tutti o a parecchi, volentieri viene evitato il lavoro lasciando agli altri la cura di ciò ch’è comune, come avviene quando la servitù è molto numerosa. Il diritto di proprietà è sottoposto all’utilità dell’individuo ma anche a vantaggio della comunità. (Cit. “Possesso e proprietà nel pensiero di san Tommaso” di Franciszek LONGCHAMPS DE BÉRIER)

Difatti, la società, nell’interesse dei singoli che la compongono, decide di tutelare giuridicamente la proprietà. Da qui, per quanto fondamentalmente utile sembri la garanzia della libertà a far uso dei propri beni, risulta difficile sostenere che i comportamenti socialmente svantaggiosi, debbano restare esenti dall’ingerenza giuridica esterna. E non deve meravigliare nessuno il riferimento all’utilitas.

Il globalismo, o social-comunismo, così come il liberismo sfrenato non contemplano queste caratteristiche del diritto naturale, pertanto portano ad un’evidente condizione disumana. Probabilmente è qui il motivo per cui il comunismo è definito come “intrinsecamente perverso” ma pure la proprietà privata non normata al fine ultimo dell’uomo diviene figlia del Serpente, spesso usuraio, e del potere economico in mano a poche famiglie, condannato dalla mirabile ed attualissima Enciclica “Quadragesimo Anno”, di Sua Santità Pio XI (1931).

Se tornassimo davvero alle nostre radici classico-cristiane, non avremmo problemi a riconoscere ed evitare gli errori, anche in materia socio-economica.

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