Nuove prove sul flop delle unioni omosessuali

Nuove prove sul flop delle unioni omosessuali

Di Pietro Licciardi

Nei giorni scorsi anche su alcuni giornali italiani abbiamo potuto leggere i dati resi noti dall’Ufficio per le statistiche nazionali del Regno Unito su matrimoni e divorzi tra gli omosessuali. I dati prendono in esame Inghilterra e Galles dove le unioni tra persone dello stesso sesso sono legali dal 2014.

Nel 2018 le coppie “scoppiate” sono state 822, il doppio dell’anno precedente e a scoppiare molto di più sono le unioni tra lesbiche: nel 2019 sono state 589 le coppie femminili a sciogliersi contro le 233 maschili. La durata media del rapporto è di soli 4,3 anni per gli uomini e 4,1 anni per le donne. Il trend dei divorzi omosessuali, informa sempre l’ufficio britannico di statistica, è analogo a quello delle coppie “etero” ma i matrimoni tra persone dello stesso sesso sono appena l’1% del totale.

Quello che qui interessa non sono tanto i numeri che dimostrano il fallimento delle unioni omosessuali, che è possibile trovare su internet, quanto ciò che essi mostrano, se mai ce ne fosse ancora bisogno, ovvero che il “matrimonio” omosessuale è un “diritto” fasullo di cui gli stessi omosessuali non sanno che farsene, infatti sono molto pochi quelli che se ne avvalgono, e quando si “sposano” restano assieme il tempo di un “amen”.

Del resto non può che essere così, essendo la condizione omosessuale assai problematica in quanto innaturale, e questo anche là dove l’omosessualità è ampiamente accettata come “normale”

Nel 2008 un team di psicologi e psichiatri britannici ha pubblicato la ricerca “A systematic review of mental disorder, suicide, and deliberate self harm in lesbian, gay and bisexual people”, studiando più di 13mila casi in cui concludevano fra l’altro che: «Le persone LGB hanno un rischio sostanzialmente maggiore di soffrire disordini mentali, ideazione suicida, abuso di sostanze e autolesionismo rispetto alla popolazione eterosessuale. (…) Le persone lesbiche, gay e bisessuali (LGB) spesso sviluppano un senso di colpa sulla propria sessualità. A ciò si aggiungono i rischi del loro particolare stile di vita, come l’abuso di alcool e di sostanze, il rischio di contrarre malattie infettive e tendenze suicide. Abbiamo anche riscontrato un alto indice di autolesionismo e di auto-avvelenamento. L’autolesionismo nella comunità LGB è una delle principali cause di ammissione ai pronto soccorso negli ospedali della Gran Bretagna»

Analoghe le conclusioni di uno studio pubblicato nel 2011 negli Stati Uniti, e basato su numerose ricerche internazionali: «Gli studi negli Stati Uniti e all’estero forniscono forte evidenza dell’elevato indice di tentativi di suicidio fra le persone LGBT. (…) Dall’inizio degli anni Novanta, tutte le ricerche condotte fra i giovani americani, che comprendono anche l’identificazione dell’orientamento sessuale, hanno riscontrato negli omosessuali indici di tentativi di suicidi sette volte più elevato rispetto ai giovani che si dichiarano eterosessuali».

Si tratta di dati di fatto che neppure la lobby LBGT contesta, come potrebbe?, ma che occulta boicottando ulteriori e aggiornate ricerche o attribuendo gli innegabili disagi ad un fantomatico clima di “omofobia”. E comunque, una volta approvata la legge Zan chi oserà insistere sull’argomento verrà perseguito.

Ma tornando alle unioni omosessuali, una ricerca condotta in Danimarca, paese anch’esso massimamente tollerante verso l’omosessualità, ha rilevato che nel corso dei primi dodici anni di legalizzazione delle unioni omosessuali (1990-2001) per gli uomini omosessuali legalmente sposati, il tasso di suicidio è stato otto volte maggiore di quello degli uomini che hanno una unione eterosessuale, e il doppio rispetto a quello degli uomini single. Nello stesso Paese, un’ altra ricerca, condotta su 6,5 milioni di danesi tra il 1982 e il 2011, ha evidenziato come il suicidio tra uomini conviventi con un altro uomo sia quattro volte maggiore rispetto a quello degli uomini sposati con una donna. Lo stesso accade in altri “paradisi gay”, come Norvegia e Svezia.

Pensare di trasformare il matrimonio in qualcosa di antitetico a ciò che tradizionalmente è, non è segno di progresso. L’antagonista della Tradizione infatti non è il Progresso, ma l’egocentrismo del presente e di chi crede di non dover rendere ragione a niente e nessuno: a chi lo ha preceduto, a chi lo seguirà e tantomeno ad un Dio creatore e al suo ordine naturale.

Ma rivoltarsi alla tradizione non porta al paradiso in terra, bensì all’inferno.

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