Sant’Agostino e quell’impegno sempre attuale per contrastare le eresie su Gesù Cristo
Di Sara Deodati*
Sant’Agostino (354-430) è annoverato tra i massimi dottori della Chiesa Occidentale. Oltre alla sterminata opera filosofica e teologica, al vescovo di Ippona sono riconosciuti grandi meriti nello sviluppo della spiritualità cattolica, come quello di aver diffuso in Africa quell’idea monastica che, a partire da lui, si svilupperà poi pienamente nei secoli V e VI.
Dopo averne presentato alcuni cenni biografici, mi soffermerò dunque sulla figura di Agostino come filosofo e uomo di Chiesa, descrivendone in particolare il ruolo, decisivo, svolto nella lotta e risoluzione delle eresie cristologiche del V secolo.
Nato a Tagaste, nell’attuale Tunisia, da padre pagano e madre cristiana, Agostino è da considerarsi “romano” come cultura e lingua, sebbene appartenente probabilmente a stirpe africana. Grazie al sostegno economico di un ricco cittadino di Tagaste, nel 370 si reca a Cartagine, città di studi ma anche di vita mondana, dove realizza il suo desiderio di formarsi ma anche di vivere pericolosamente ed esercitare tutte le facoltà dei sensi. Compiuti con successo i suoi studi, diviene nel 376 maestro di retorica. Dopo aver frequentato la setta pseudocristiana dei manichei, Agostino conosce una prima “conversione intellettuale” grazie alla quale si avvicina ai veri quesiti filosofici. Insoddisfatto quindi dell’ambiente di Cartagine, si trasferisce dapprima a Roma, poi a Milano, allora capitale dell’Impero e diocesi nella quale esercitava le funzioni di vescovo il noto Aurelio Ambrogio (340-397).
L’incontro tra queste due straordinarie personalità assume quasi l’aspetto di un “congedo” del cristianesimo antico dal mondo classico.
Ritornato in Africa, nel 395 Agostino è acclamato vescovo di Ippona, città nella quale muore all’età di 76 anni, dopo esserne stato quindi pastore e maestro per ben 35 anni. Da qui conduce memorabili polemiche che permisero di porre fine ad eresie e scismi che avevano messo a repentaglio l’unità della Chiesa nel IV e V secolo. Innanzitutto da parte dei “manichei”, setta che Agostino combatté elaborando una importante riflessione sulla natura del male riconosciuto come carenza di bene dovuto e non come entità avente un essere proprio. Poi fu il turno dell’eresia “pelagiana”, che il Vescovo d’Ippona sconfisse confutandone l’errore secondo cui l’uomo, mediante le sue sole forze, quindi senza la Grazia, sarebbe stato in grado di salvarsi superando ogni tipo di tentazione.
Infine, il ruolo di Agostino fu determinante per superare lo scisma dei “donatisti” che, fin dall’inizio del IV secolo, stavano diffondendo l’erronea opinione dell’esistenza di peccati che non potevano avere remissione, in primo luogo quelli di “apostasia”. Agli eredi di Donato di Numidia (ca.270 – ca.355), Agostino dimostrò che i sacramenti sono opera di Cristo e, quindi, sono indipendenti dalla dignità del ministro. Il sacerdote che li amministra si configura solamente come un “agente secondario”, certamente intelligente e libero, ma che non ne rappresenta la parte più importante. Si tratta della conclusione teologica, oggi universalmente conosciuta, per la quale i sacramenti agiscono ex opere operato, non quindi in conseguenza delle buone disposizioni o della “santità” del ministro.
Nella “contesa donatista” è stata addebita alla polemica di Agostino, in particolare quella riflessa nei Sermones, una scarsa capacità di vedere la “qualità” ed il “peso politico” impliciti in alcune delle questioni di natura religiosa sollevate da Donato. La persecuzione dei donatisti, infatti, è stata presentata anche come una conseguenza della loro diversa posizione, rispetto alla “lealtà” cattolica, di fronte allo Stato romano e al suo potere.
La Chiesa di Roma, infatti, era accusata da Donato e dai suoi seguaci di costituire «una comunità religiosa e cultuale legata allo Stato; quella donatista rifiutava invece questo legame: “Cosa ha a che fare l’imperatore con la Chiesa?” […]. Questo atteggiamento si collegò con forze politiche e sociali impegnate per un’autonomia nordafricana, che la Chiesa cattolica cercò di contrastare unitamente al potere statale» (K. Suso Frank, Storia della Chiesa antica, LEV, Città del Vaticano 2000, pp. 299-301).
Le critiche “politiche” mosse ad Agostino sembrano comunque riduttive, in quanto assumono un’ottica limitata della grande opera condotta contro l’eresia donatista dal vescovo di Ippona. Effettivamente, limitandosi ad esempio al testo del Sermo 46, il quale presenta alcuni passaggi polemici forti e, talvolta, addirittura impressionanti, sarebbe facile cadere in erronee e semplicistiche interpretazioni sul ruolo svolto da Agostino nella contesa anti-eretica. Come hanno notato però gli storici della Chiesa Karl Baus ed Eugen Ewig, «Se si esaminano spassionatamente gli scritti di Agostino contro i donatisti, nel loro complesso, e se ne considera la forza e l’efficacia; se soprattutto si esaminano le parti relative al problema donatista della sua corrispondenza e ancor più delle sue prediche, non si può fingere di non sentire che lì parla la voce di un uomo che fu tanto impegnato e travagliato dalla responsabilità religiosa di riportare in un’unica ecclesia i fratelli caduti nell’errore che di fronte a quella tutte le altre considerazioni passarono in secondo piano» (L’epoca dei concili, in Hubert Jedin (a cura di), Storia della Chiesa, vol. II, Jaca Book, Milano 1975, p. 171).
Anche da parte donatista, del resto, la polemica non fu leggera contro i cattolici, che erano infatti indicati come il “ramo morto” dell’albero della “vera Chiesa”. La fermezza assunta da Agostino e dalle stesse autorità imperiali, si giustifica inoltre ex ante. Infatti, prima degli eventi che videro coinvolto il vescovo di Ippona, i donatisti erano stati coinvolti in altre ribellioni contro Roma, per esempio quella di Fermo nel 372, repressa duramente.
Venendo ora all’opera specificamente speculativa di Sant’Agostino, possiamo dire che la sua principale “fonte filosofica” si rinviene nel pensiero platonico e neoplatonico che, egli, in non pochi punti corregge ed integra e, quindi, “cristianizza”. Agli Autori platonici cui il vescovo di Ippona si rifà egli contesta innanzitutto l’incredulità perché, come rileva Giovanni Paolo II, «pur avendo conosciuto il fine verso cui tendere, ignoravano però la via che vi conduce: il Verbo incarnato. Il Vescovo di Ippona riuscì a produrre la prima grande sintesi del pensiero filosofico e teologico nella quale confluivano correnti del pensiero greco e latino. Anche in lui, la grande unità del sapere, che trovava il suo fondamento nel pensiero biblico, venne ad essere confermata e sostenuta dalla profondità del pensiero speculativo» (Lettera Enciclica Fides et Ratio “circa i rapporti tra fede e ragione”, 14 settembre 1998, n. 40).
Anche Aristotele e Cicerone possono essere considerati fra gli Autori cui si ispirò il grande Dottore della Chiesa ma, indubbiamente, è Platone che Agostino riconosce come il più grande filosofo dell’antichità.
Riguardo al fondamento e al valore del linguaggio teologico, Sant’Agostino individua ragioni di fede (es. Sacra Scrittura) e del fatto dell’Incarnazione, ma anche di ragione, facendo tutti capo all’unico principio dell’esemplarità (idee di Platone). Quindi le parole possono essere espressione sia delle cose di questo mondo, sia della realtà divina.
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* Laureata in Scienze Religiose nella Facoltà di Teologia della Pontificia Università della Santa Croce (Roma)