Ecco i due cammini di Sant’Antonio che si possono fare

Ecco i due cammini di Sant’Antonio che si possono fare

Di Benedetta De Vito

A ventun anni, inseguendo la laurea in letteratura portoghese, mi ritrovai a studiar Fernando Pessoa a Lisbona. Vivevo in una villetta liberty a Restelo. Bella e nella bambagia la mia vita in casa di Vovodina, nonna di una mia compagna di corso. Come si stupiva la  nonna Dina di me che, mentre le altre se ne stavano davanti alla telenovela brasiliana, indossata la voglia di sapere come un guanto, partivo dopo le ore in biblioteca, a visitar gallerie, musei e monumenti. Io, su fino al Castello di San Jorge e poi giù alla Baixa in “eletrico” oppure a piedi.

Un pomeriggio eccomi, al “Museo nacional de arte antiga” di fronte al trittico di Hieronymus Bosch dedicato alle tentazioni di Sant’Antonio. Mi persi in quella mala bolgia da incubo, nell’uniforme color fango, in cui il povero Antonio, che non è il Sant’Antonio da Padova, ma il Santo anacoreta del deserto di cui scrisse Sant’Atanasio, si trovava a pregare tra mostri e mostricci.

In cielo, non le belle nuvole sfilacciate nell’azzurrità stirata dagli angeli di Lisbona, ma piatti e pesci volanti con i loro orridi equipaggi; in terra, uomini nudi e trafitti, nani con pattini e becchi adunchi, megere, peccatori, animali da bestiario medievale.

Ancora non lo sapevo ma, seppur per santo omonimo interposto, Sant’Antonio da Padova, al secolo Fernando (un altro Fernando, non Pessoa) Martins de Bulhoes, picchiava all’uscio della mia persona. Antonio: un fiore, perché il suo nome è fiore in greco e antologia, per chi non lo sapesse, è raccolta di fiori, i fiori della scrittura. Antonio che ha in braccio il Bambinello e in mano il giglio bianco della purezza…

Dimentica di lui, lo ritrovai, sposa, con mio marito padovano, visitando il Santo, la Chiesa senza nome che è basilica “granda” e gloria di Padova, dedicata proprio ad Antonio. Da Lisbona, dove era nato in una buona famiglia e divenuto agostiniano, arrivò a morir qui, francescano, a pochi chilometri dalla Città sua, cioè del Santo, all’Arcella. Il cerchio si chiude, in un giro del compasso, che mi porta da Lisbona a Padova sui luoghi antoniani. E che, scopro ora con gioia, possono essere percorsi a piedi in un cammino del quale scriverò, avendone percorso a tratti qualche chilometro.

Due sono i cammini di Sant’Antonio che si possono fare, seguendo le orme del dolcissimo portoghese che conquistò l’Italia, con la sua facondia semplice, con il sorriso, con l’adorabile abbandono nelle mani del Signore. Per percorrere il primo, detto “Il lungo cammino” si può partire, a scelta, da Padova, da Camposampiero o  da Venezia, e poi si scende, lungo il Veneto e poi lungo l’Emilia Romagna per arrivare al Santuario della Verna. In tutto circa 400 chilometri. Quindi, gambe in spalla e partiamo, nel sogno che s’accende in questo fosco scorcio di inverno infetto ancora di più dalla follia degli uomini.

Durante le tappe, ben 22, la bellezza rapisce il cuore e l’anima, in preghiera, ritrova gli sconfinati abissi che la uniscono al suo Creatore. Bellezza del creato e bellezza delle città degli uomini si tengono per mano nell’armonia del cosmo che s’oppone, risoluto, al caos in cui ci hanno precipitati. Eccoci, dunque a Monselice, dove sorge il santuario di San Leopoldo Mandic, confessore, un cappuccino piccolo di statura e immenso di santità. Poi Rovigo, bella città veneta che, delle sorelle è la Cenerentola. Il Po ci conduce, nel respiro delle sue acque, fino a Ferrara, la splendida. Avanti ancora, nel ricordo dei miracoli del Santo. Qui, ad esempio, Sant’Antonio diede la voce a un pargoletto appena nato che salvò dalla morte la sua mamma, accusata di aver ucciso il marito…

Immersi nelle selvagge zone umide, cicogne, garzette e altri uccelli sono gli unici compagni, e il vento, silenzioso fa fremer le acque d’un brivido d’amore. Siamo a Malalbergo, a Polesella. Finalmente Bologna, la turrita, splendida e un poco superba della propria bellezza, che ci lasciamo alle spalle, insieme a Balanzone, dopo aver mangiato, in sogno sempre, un bel piatto di tortelli alla zucca. Immersi poi nel Parco regionale dei Gessi Bolognesi e Calanchi dell’Abbadessa, potremmo posar lo sguardo, in un giorno di chiarità di cielo, a riposare sulle vette delle Alpi. Ancora Romagna, magnifica, tra pievi e chiese. Si cammina, si procede a volte in salita, con fatica, ma eccoci, a Dovadola, all’Eremo di Montepaolo, la prima dimora di frate Antonio in Italia. Si può visitare la piccola chiesa che custodisce una reliquia e pregare nella grotta che il Santo prediligeva per le sue orazioni. Fatto il segno della Croce è ora di ripartire.

Non senza pensare al giorno in cui Antonio lasciò la sua Lisbona per andare a convertire i maomettani. Non c’era ecumenismo allora, luminosa la strada della Vera e Unica Fede. E meno male. E tanto per capire di che tempra era il dolce Sant’Antonio, ecco un brano tratto dai suoi sermoni che dovrebbe far riflettere i “cani muti”, cioè i pastori del gregge della Santa Chiesa ai quali è affidata la salute delle pecorelle, sia ognuno di noi, nella missione avuta dal cielo: “La verità genera odio, per questo alcuni, per non incorrere nell’odio degli ascoltatori, velano la bocca con il manto del silenzio. Se predicassero la verità, come verità stessa esige e la divina Scrittura apertamente impone essi incorrerebbero nell’odio delle persone mondane che finirebbero per estrometterli dai loro ambienti, Ma siccome camminano secondo la mentalità dei mondani, temono di scandalizzarli, mentre non si deve mai venir meno alla verità, neppure a costo di scandalo”. E avanti con il giglio delle purezza alla maniera di uno stendardo.

Ci attendono, ora, le cascate dell’Acquacheta, citate da Dante Alighieri nell’Inferno. La cascata d’acqua che cheta non è si trasformò, nella poesia del Ghibellin fuggiasco, in quella del Flegetonte… A Castagno d’Andrea si entra nel regno dei castagneti che per secoli hanno dato cibo e legna alla popolazione. Regno anche dei carbonai, arcaici, solitari, rustici, che dei boschi conoscevano i segreti tutti quanti. Il casentino è anche un panno di lana, che splende in lucente arancio. Tra i boschi, andando nel silenzio, si potranno incontrar daini, caprioli e cervi. Ancora poco e, passato l’eremo di Camaldoli, si raggiunge la meta: il santuario della Verna, dove San Francesco, che si recava nell’appennino toscano per pregare, ricevette le sante stimmate. Ecco riuniti i due Santi francescani in questo stupendo luogo di bellezza scarna, francescana, che fa corona al monte omonimo, tra le fronde di faggi, aceri, frassini querce, sorbi, nella sacralità del creato tanto cara a Francesco e ad Antonio. La foresta “monumentale” del monte della Verna è patrimonio dell’umanità. Oltre al respiro nell’assoluto, nella gioia di star con i frati che hanno la pace nel cuore, potrete visitare la farmacia del santuario e comperare miele, pomate, unguenti, amari e saponette e portarvi a casa in questo modo un pezzettino di cammino.

E ora che siamo giunti alla meta torniamo, sul mantello volante di San Francesco da Paola, sui nostri agili passi per ritrovarci a Camposampiero, dove Sant’Antonio ebbe la visione di Gesù Bambino. Da qui parte il secondo cammino, detto “L’ultimo cammino” ,perché, in 24 chilometri, porta il pellegrino da qui al Santo, seguendo spiritualmente le ultime ore del pellegrinaggio terreno di Antonio. A Camposampiero, si sentì male, fu caricato su un carro trainato da buoi per essere portato a Padova. Giunto all’Arcella, alla periferia di Padova, spirò e, nel ricordo di lui, fu costruito un santuario che fiorì e divenne rovina più volte. Fino all’attuale che è dell’Ottocento. Sant’Antonino, come viene chiamato in simpatia dai padovani per differenziarlo dal Grande, è moderno, in stile gotico, con grande uso di cotto. Appena sposata, passai il mio primo Natale con i suoceri che avevano e hanno una casa proprio all’Arcella. Con loro, la mattina di Natale, mi pare alle undici, ero lì dove Sant’Antonio, tanti secoli, prima era nato in cielo. La chiesa era piena piena di fedeli, i canti commoventi (anche se un poco moderni per i miei gusti), i frati in danza tutt’intorno, eppure a me, che sono romana, mancava quel profumo d’antico che respiro nelle chiese mie, Sant’Agata dei Goti, Santa Maria Maggiore, San Pietro in Vincoli, e che manca in questi templi moderni. Così ho chiuso gli occhi e andando a ritroso col pensiero l’Arcella tornava quella di Antonio, non costellata di villette anni Sessanta, ma un pezzo di campagna sassosa e piatta, ricca d’acqua e di erbe, rurale, semplice, contadina, come era il Veneto allora. Respiro nell’intorno. Anche io da Lisbona a Padova.

 

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