Per favorire la natalità servirebbero più interventi per la conciliazione lavoro-famiglia
Di Maria Luisa Donatiello
Le famiglie italiane con figli necessitano oggi di attenzioni e interventi da parte dello Stato e degli Enti Locali per favorire la conciliazione tra lavoro e famiglia. I vari Governi succedutisi negli ultimi trent’anni, mediante il variamente denominato Ministero per le pari opportunità e la famiglia e, in particolare, il Dipartimento per le politiche della famiglia, con l’Ufficio preposto agli Interventi per la conciliazione, comunicazione e gestione, hanno elaborato mezzi efficaci per tentare di dare una risposta alle esigenze degli italiani con figli a carico.
La prima via percorsa, benché rimasta nel tempo puramente teorica, è stata quella di riproporre il sostegno economico(un segnale positivo, sebbene simbolico, potrebbe giungere dall’attribuzione a tutte le famiglie dell’assegno unico universale mensile per ogni figlio, a partire comunque dal prossimo anno, che rientra nel c.d. Family Act approvato lo scorso giugno). Una seconda via, appunto, è quella di favorire una maggiore conciliazione tra lavoro e famiglia, che si rende necessaria nel caso in cui siano entrambi i genitori a lavorare e i figli siano neonati o bambini nell’età dell’infanzia. Le pari opportunità tra uomo e donna, alle quali richiama fortemente anche il punto 5 della pur discutibile Agenda 2030per lo Sviluppo Sostenibile dell’ONU, non devono essere generalizzate, piuttosto devono mirare alla valorizzazione dei diversi ruoli naturali di uomo e donna e a garantire la promozione del rispetto reciproco e della loro vocazione all’interno della famiglia e della società. Uomo e donna, mamma e papà hanno uguale importanza nella loro diversità di ruoli e vocazione. Per natura è la donna a partorire e a seguire da vicino, soprattutto nei primi anni, i figli.
Una donna lavoratrice che riceve il dono di un figlio, della vita che sboccia nel proprio grembo, di un bambino che cresce dentro di lei e poi nasce, necessita di essere rassicurata dalle leggi della propria Comunità pubblica. Quest’ultima non dovrà costringerla ad interrompere l’allattamento al seno dopo tre, quattro o cinque mesi, bensì favorirlo almeno fino al sesto mese del figlio, senza che la donna debba scegliere di lavorare fino al nono mese di gravidanza per poter conservare un mese in più di congedo di maternità dopo il parto e senza dover ricorrere al congedo parentale retribuito al 30% e perdere il 70% del proprio stipendio. Infatti il sesto mese del neonato è il momento che i pediatri suggeriscono per l’inizio dello svezzamento, pur consigliando l’allattamento al seno almeno per tutto il primo anno di vita del bambino. Le ore di allattamento concesse alla madre lavoratrice che ritorna a lavorare non bastano, il bambino e la madre non sono naturalmente pronti al distacco forzato al terzo, quarto o quinto mese, la madre deve essere messa in condizione, in ogni caso e se lo desidera, di crescere il proprio figlio fino almeno al sesto mese, senza doversene per forza distaccare. Tutto questo al fine del bene più prezioso, ovvero la crescita sana e serena del proprio piccolo.
Le modalità di lavoro potrebbero essere ripensate ricorrendo a modalità flessibili, verificando anche la possibilità – quando compatibile con l’attività da svolgere e le esigenze dell’azienda – del ricorso al lavoro agile. In particolare quest’ultimo dovrebbe essere consentito con la massima facilitazione alle neomamme che lo scelgano nel primo anno di vita del bambino. È una questione di priorità. Se lo Stato italiano ha tra le proprie priorità la famiglia e la tutela dei più piccoli, non dovrebbero essere scartate a priori tali proposte.
Garantire la presenza dei genitori durante la prima infanzia del bambino significa offrire all’individuo una crescita più serena, sicura ed equilibrata e una maggiore tutela della salute se si considerano i tanti benefici dell’allattamento prolungato al seno. È bene ribadire dunque che una madre e un padre aperti alla vita, che mettono al mondo dei bambini, devono essere considerati per il Paese la “risorsa” più preziosa e sostenuti sia economicamente che dal punto di vista della gestione familiare e quindi della conciliazione famiglia-lavoro.
L’Italia vive un momento di crisi demografica perché le politiche familiari non fanno ancora abbastanza in favore della promozione e della tutela delle famiglie con figli. Dopo un periodo di crisi la storia insegna che segue un periodo di crescita, ebbene per favorire in Italia un nuovo baby-boom, al quale la nostra Nazione ha già assistito tra gli anni 50-60 del secolo scorso a seguito del secondo conflitto mondiale, è necessario investire sulle famiglie favorendo le nascite, operando una riforma fiscale, offrendo una vera libertà scolastica e servizi educativi gratuiti, assegni economici cospicui e assicurando la possibilità ai genitori di conciliare i propri impegni lavorativi con le esigenze familiari. Solo così i nuovi genitori potranno avere la libertà di prendersi cura dei propri figli senza il timore di doverli mettere al mondo per non avere poi la possibilità concreta di educarli e farne cittadini, lavoratori e padri e madri del domani.