L’uomo che fece recuperare alle imprese un po’ di terreno rispetto al “contropotere” delle sinistre
Di Giuseppe Brienza
Il recente saggio di Italo Inglese L’arte delle relazioni industriali. Il pensiero di Felice Mortillaro su impresa e lavoro (Edizioni Solfanelli, Presentazione di Gennaro Malgieri, Chieti 2020, pp. 104, € 9), getta una luce su una figura di economista serio ma poco conosciuto, protagonista delle relazioni industriali negli anni caldi del conflitto sindacale e nella fase successiva in cui l’impresa italiana è riuscita per un po’ a recuperare terreno rispetto al “contropotere” delle sinistre nelle fabbriche e nelle aziende.
Italo Inglese (Roma, 1956), giurista e giornalista pubblicista, è autore di numerosi saggi e libri di narrativa. Fra i primi ricordiamo Azione collettiva e norma giuridica. Elementi di diritto sindacale italiano (Roma, 2003), Elementi di diritto sindacale (Roma, 2007), Il diritto di critica nei luoghi di lavoro (Torino, 2014) e, infine, l’opera collettiva La sinistra ha fallito? Opinioni a confronto (Chieti 2020).
Felice Mortillaro, avvocato e professore di Diritto del Lavoro nato a Genova nel 1931 e morto a Milano nel 1995, usava definirsi un “sindacalista d’impresa” e, nel suo lavoro e discorso pubblico, seppe promuovere le ragioni dell’economia di mercato, dell’efficienza e della responsabilità individuale contro la diffusa mentalità assistenzialista e il marxismo nelle varie espressioni degli anni Settanta e Ottanta.
Il pensiero dell’economista genovese torna a mio avviso d’attualità in un’epoca in cui il liberalismo è posto sotto accusa in quanto sbrigativamente assimilato alla finanziarizzazione dell’economia e al capitalismo sregolato, ma nessuno è in grado di proporre una valida e credibile alternativa al libero mercato. Ne abbiamo parlato con Italo Inglese.
Perché riparlare oggi di un economista “conservatore” come Felice Mortillaro?
Parlare oggi di Felice Mortillaro, riproporre il suo pensiero, può servire ad affrontare il dibattito sul ruolo del libero mercato e sugli sviluppi delle relazioni industriali, cioè dei rapporti tra datori di lavoro e lavoratori e tra le rispettive organizzazioni di rappresentanza, con maggiore cognizione di causa e prescindendo da preconcetti ideologici. Tali pregiudizi sono infatti ancora molto presenti, a destra non meno che a sinistra, e impediscono una obiettiva valutazione della realtà.
E com’è vista, secondo te, dal punto di vista politico e culturale, la realtà dell’economia italiana di oggi?
Tra i tanti paradossi che caratterizzano il nostro Paese ve n’è uno davvero sorprendente: la sinistra rimasta più legata alla dottrina marxiana e la cosiddetta “destra sociale” sembrano unanimi nel condannare il liberismo, che assurge, secondo questa stravagante ed estemporanea convergenza, a principale responsabile dei mali della società contemporanea. È curioso che questa linea sia sostenuta con forza in un Paese come l’Italia, contrassegnato, specialmente nell’età repubblicana e fino ai nostri giorni, dal pervasivo intervento dello Stato nell’economia e dall’ assenza di un genuino ed efficiente sistema di libero mercato.
Ma molti si scagliano contro il c. d. libero mercato perché lo identificano con la globalizzazione…
Certo, i guasti della globalizzazione sono sotto gli occhi di tutti. Ma la globalizzazione costituisce uno sviluppo aberrante del liberismo. È legittimo contrastarla, ma ciò non implica il rifiuto dell’economia di mercato, il sistema finora dimostratosi più efficiente nella produzione di ricchezza. Chi ha a cuore le sorti dell’economia e dell’occupazione nazionali dovrebbe opporsi all’assistenzialismo e al clientelismo, non al libero mercato. Vi è una forte dimensione etica nella libera concorrenza, che è del tutto assente nella società che ottunde il merito e l’iniziativa individuale. Come Adam Smith (1723-1790), Mortillaro riteneva che l’economia dovesse dispiegarsi in un quadro di regole, poste da un legislatore eletto democraticamente e assistite dal potere coercitivo di un’autorità in grado di farle rispettare; aspetto, questo, reso problematico dall’erosione della sovranità nazionale causata dal neoliberismo, che è cosa ben diversa dal liberalismo classico.
Certamente, e il problema dell’espropriazione della sovranità economica delle nazioni, e tanto più grave se guardiamo alle alternative che, alcuni, ci propinano per far fronte al mercato senza controllo, ovvero una “decrescita felice” in contrapposizione alla globalizzazione…
Indubbiamente la globalizzazione produce effetti eversivi sulle condizioni di lavoro e sui livelli di welfare gradualmente e faticosamente conquistati nei Paesi occidentali. La soluzione del problema non può essere però la “decrescita serena e solidale” auspicata dagli avversari del liberismo, i quali sogliono dimenticare che l’industrializzazione capitalistica ha determinato un formidabile accrescimento del benessere (non solo materiale), l’incremento dell’aspettativa di vita, progressi in campo sanitario, mentre il modello della sobrietà imposto per legge ha prodotto miseria. «Se oggi – notava Mortillaro agli inizi degli anni Ottanta – l’Europa, l’America del Nord e una parte dell’Asia non lottano contro la fame (che settanta o sessanta anni fa insidiava ancora la Svezia e quarant’anni or sono l’Italia) lo devono all’industrializzazione, alla sua capacità di moltiplicare i beni di ogni genere e di metterli a disposizione della generalità degli uomini a prezzi effettivi sempre più ridotti».
Sono d’accordo con quanto espresso da Mortillaro in questo importante passaggio. Per quanto mi riguarda, credo anche che se riusciremo nel periodo post-Covid ad evitare le demonizzazioni del giusto profitto, cioè l’unica leva per rilanciare i settori economico-produttivi capaci di incrementare il Pil, il lavoro e l’economia nazionale, forse la ripresa non sarà così lontana…
Già e, quanto al profitto, ancora oggi demonizzato dalla diffusa mentalità anticapitalistica, in esso per Mortillaro risiede la vera funzione sociale dell’impresa, la sua legittimazione: produrre ricchezza attraverso la ricerca del saldo positivo tra risorse impiegate e saldo finale. Il profitto è prova e misura dell’efficienza raggiunta nell’attività d’impresa.
La Dottrina Sociale della Chiesa ha sempre proposto di associare, per quanto è possibile, il lavoro alla proprietà del capitale. In pratica, l’obiettivo sarebbe di rendere in qualche misura il lavoratore “comproprietario” dell’attività alla quale, con gli altri, s’impegna. Nel Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa leggiamo a questo proposito: «Il rapporto tra lavoro e capitale trova espressione anche attraverso la partecipazione dei lavoratori alla proprietà, alla sua gestione, ai suoi frutti. È questa un’esigenza troppo spesso trascurata, che occorre invece valorizzare al meglio» (n. 281). Come valuterebbe secondo te il nostro economista una prospettiva di questo genere?
Mortillaro non era aprioristicamente contrario alla partecipazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti nell’impresa, ma pragmaticamente rilevava l’impercorribilità di un simile progetto in un sistema come quello italiano in cui la logica di collaborazione è estranea al movimento sindacale, che ha storicamente esercitato una funzione di contropotere. E pertanto osservava che la “partecipazione conflittuale”, da alcuni teorizzata, consistente nel sovrapporre il modello italiano di relazioni industriali a un sistema codecisionale alla tedesca, in modo da conseguire caso per caso i vantaggi dell’uno e dell’altro, è una contraddizione in termini che ricalca l’equivoco berlingueriano del “partito di lotta e di governo”; equivoco che non può essere assecondato perché «o c’è conflitto o c’è codecisione, un’alternativa che, quale sia la scelta, offre un preciso rapporto costi/benefici».
Per informazioni o ordinazioni sul saggio pubblicato da Italo Inglese si può consultare il seguente link al sito della casa editrice Solfanelli: https://www.edizionisolfanelli.it/lartedellerelazioniindustriali.htm.