Le tre colonne della Dottrina Sociale della Chiesa da mettere in pratica

Le tre colonne della Dottrina Sociale della Chiesa da mettere in pratica

Di Don Gian Maria Comolli*

La Dottrina Sociale della Chiesa (DSC), se solo si volesse studiare e mettere in pratica, sarebbe perfettamente in grado di indicare, in ogni situazione sociale o politica, le modalità per salvaguardare la centralità e la dignità incondizionata di ogni uomo. Come? Perseguendo il Bene Comune supportato da tre colonne: solidarietà, sussidiarietà e partecipazione.

Il principio del Bene Comune trova la sua origine direttamente dal racconto della Creazione del mondo narrata nei primi capitoli del Libro della Genesi, quando Dio dona all’uomo la terra per dominarla con il suo agire, per poi gioirne dei frutti. Gioirne però non da padrone assoluto ma da collaboratore del Creatore. Afferma in proposito il cardinale Dionigi Tettamanzi: «Poiché immagine di Dio, e quindi collaboratore di Dio, l’uomo non è l’arbitro insindacabile o il padrone assoluto del creato: è unicamente “l’economo di Dio”» (L’uomo immagine di Dio. Linee fondamentali di morale cristiana, Piemme, Casale Monferrato 1994, p. 45).

Papa Francesco definisce questa missione una «tremenda responsabilità dell’uomo nei confronti del creato» (Laudato si’, n. 66). Da ciò comprendiamo che l’uomo non può rivendicare un diritto assoluto all’uso dei beni, seguendo criteri individualisti. Egli deve invece imparare a comprendere che questa fruizione, basandosi sul diritto naturale, abbraccia tutti e supera ogni privilegio o monopolio come affermato da san Paolo VI nella Enciclica “Populorum Progressio”: «Tutti gli altri diritti, qualunque essi siano, incluso quello di proprietà e al libero mercato, devono essere subordinati alla universale destinazione dei beni […] essi devono farne procedere l’applicazione» (n. 22).

Nell’ambito cattolico la prima formulazione di Bene Comune la abbiamo dai Padri della Chiesa, in particolare da Basilio di Cesarea (330-379) nel testo “Il buon uso della ricchezza” (Nuova Editrice Berti, 1995). Qui leggiamo un’eloquente metafora: il santo invita a guardare un pozzo, se attingiamo l’acqua, la sorgente la ricrea, perciò è possibile distribuirla a quelli che la necessitano, se invece l’acqua non è prelevata, dopo un po’ di tempo diviene inutilizzabile. Così è il bene comune: deve circolare, cioè produrre utilità per ciascuno e per tutti contemporaneamente.

San Tommaso d’Aquino approfondisce così il concetto: «per gli aspetti che ha comuni con tutti i viventi e con tutti gli animali l’uomo sia subordinato alla comunità sociale e politica sacrificando il suo bene individuale per la comunità». Ma l’Aquinate puntualizza: «L’individuo ha da realizzare certi valori che non possono essere sacrificati per nessuna cosa al mondo» (De regimine principum, l. I, c. 1).

Con il trascorrere dei secoli, il concetto di Bene Comune fu meglio strutturato. Evidenziamo, tra i molti, due contributi. Anzitutto la Costituzione Pastorale “Gaudium et spes” del Concilio Vaticano II, che lo definisce «L’insieme di quelle condizioni sociali che consentono e favoriscono negli esseri umani, nelle famiglie e nelle associazioni il conseguimento più pieno e spedito della loro perfezione» (n. 74). In secondo luogo, il “Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa”, che afferma: «Il bene comune non consiste nella semplice somma dei beni particolari di ciascun soggetto del corpo sociale. Essendo di tutti e di ciascuno è e rimane comune, perché indivisibile e perché soltanto insieme è possibile raggiungerlo, accrescerlo e custodirlo, anche in vista del futuro. Come l’agire morale del singolo si realizza nel compiere il bene, così l’agire sociale giunge a pienezza realizzando il bene comune» (n. 164).

Ebbene, il Bene Comune può essere conseguito unicamente operando tutti insieme, ognuno esercitando le sue responsabilità e avvalendosi delle opportunità che la vita gli offre. Non dimenticando che ogni uomo ha il diritto di ottimizzare la propria esistenza e potenziare le proprie doti per affermarsi totalmente e consapevolmente mediante la libertà di parola, di pensiero, di azione e pervenire così a una degna “qualità della vita” (non intesa in senso liberale, naturalmente).

La dicitura “bene comune”, pur possedendo un’alta carica valoriale, oggi rischia il tramonto sostituita da espressioni che potrebbero apparire simili ma non lo sono affatto. Pensiamo a “beni pubblici”, “beni comuni” (al plurale, che fissa l’attenzione solo su quelli materiali), “bene collettivo”, “interessi generali” etc. Queste locuzioni non sono affini poiché tracciano visioni antropologiche e sociali riferendosi a ideologie divergenti, almeno in parte, da quella cristiana. Il “bene pubblico” è inerente al liberalismo, gli “interessi generali” all’utilitarismo sociale e il “bene collettivo” è un’espressione tipica del socialismo. Inoltre, la modifica del Titolo V della Costituzione italiana (l. Cost. 3/2001) che ha introdotto nella nostra Carta il principio di sussidiarietà lo ha poggiato sull’interesse generale e non sul Bene Comune. Ciò, ovviamente, provoca delle ripercussioni a livello societario. Il Bene Comune proposto dalla DSC si differenzia dalle prospettive evidenziate poiché si prefigge primariamente la valorizzazione della singolarità e della sacralità di ogni uomo depositario contemporaneamente di diritti e di doveri.

La ricerca del Bene Comune non è né pauperistica né individualista ma un processo di progresso societario che rende compatibili contemporaneamente il conseguimento del benessere collettivo e del singolo. È la difficile ricerca dell’armonia tra queste due istanze che richiede «la capacità di vedere il bene altrui come se fosse il proprio» (Compendio DSC, n. 167). Pur nella sua complessità, operare per il Bene Comune, oggi, sarebbe l’unica possibilità che ci resta per superare e sconfiggere scenari che da decenni ci logorano e che la “pandemia” ha accresciuto. Infatti, lungi da essere un’utopia o un’idea astratta, il Bene Comune potrebbe ben orientare comportamenti, atteggiamenti e condotte da ricostruire, oltrepassando la nostra pessima abitudine che individua, sempre e comunque altrove, le responsabilità di ciò che ci accade.

Comunque, la responsabilità che tutti abbiamo nei confronti del Bene Comune, non prescinde dalla ricerca del proprio benessere, ma postula contemporaneamente l’obbligo di valutare l’altrui come il proprio e riconoscendo, rispettando e accrescendo i diritti di ogni membro della società.

Il traguardo del Bene Comune non sarà raggiunto senza percorsi educativi e formativi.  Nel periodo del lockdown ma anche in seguito ministri, presidenti delle regioni, sindaci etc. ci hanno invitato con enfasi, e a volte con minacce, a osservare alcune misure precauzionali. Allora era il “rimanere a casa”, oggi l’indossare le mascherine, il distanziamento, l’evitare assembramenti… Ma, un numero notevole di persone, ha ignorato e continua ad ignorare questi appelli. Ciò che meraviglia è che nessuno di questi amministratori si interroghi riguardo alle motivazioni che inducono tanti a fare finta di non capire avendo la questione origini lontane e profonde, e per alcuni politici ed opinionisti, è imbarazzante riferirsi al trascurato aspetto educativo e culturale, avendo spesso negato l’intersecarsi dei diritti con i doveri. Già nel 2001, in “La rabbia e l’orgoglio”, la nota scrittrice Oriana Fallaci ammoniva: «da decenni in Italia si parla sempre di diritti e mai di doveri. In Italia si finge di ignorare o si ignora che ogni diritto comporta un dovere» (BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, Torino 2014, p. 73). Ebbene, da decenni, la cultura dominante insegna a rivendicare prepotentemente i diritti soggettivi, scordandosi dei doveri dell’“io personale” verso il “tu comunitario”, ritenuti un limite alla libertà. Eppure, senza un percorso educativo-culturale, non si va da nessuna parte!

Lo aveva ben compreso San Paolo VI che nell’enciclica “Octogesima adveniens” trattando del Bene Comune indicò chi doveva assumersi questa gravosa responsabilità: «Non spetta né allo Stato né ai partiti politici che sarebbero chiusi su se stessi, di imporre un’ideologia con mezzi che sboccherebbero nella dittatura degli spiriti, la peggiore di tutte. È compito dei raggruppamenti culturali e religiosi, nella libertà d’adesione che essi presuppongono, di sviluppare nel corpo sociale, in maniera disinteressata e per vie loro proprie, queste convinzioni ultime sulla natura, l’origine e il fine dell’uomo e della società» (n. 25). Da questa frase comprendiamo nuovamente il rilevante compito affidato alla DSC.

* Don Gian Maria Comolli, ordinato sacerdote nel 1986, da trent’anni è cappellano ospedaliero. Dopo aver conseguito un dottorato in Teologia, una laurea in Sociologia ed aver frequentato diversi master e corsi di perfezionamento universitari, attualmente collabora con l’Ufficio della Pastorale della Salute dell’arcidiocesi di Milano ed è segretario della Consulta per la Pastorale della Salute della Regione Lombardia.

Testo pubblicato per gentile concessione dell’autore (tratto dal blogwww.gianmariacomolli.it).

 

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