Le radici antiche della Dottrina sociale della Chiesa
Di Omar Ebrahime
Uno dei problemi principali del Cristianesimo dell’età moderna e contemporanea, anzitutto nelle organizzazioni più attive del laicato, è stato senz’altro quello di aver messo spesso da parte la propria specificità di fronte alle ideologie dominanti subordinando – non di rado – il primato eterno del Decalogo e del Vangelo al pensiero politico-sociale veicolato in quel momento storico dalla maggioranza o dalle singole élite al potere.
La singolare ‘scelta’ di campo – peraltro sempre pubblicamente condannata dai Pontefici – sintomo evidente di una crisi di fede interiore, ha portato conseguenze deleterie e, talvolta, ferite non facili da rimarginare nell’identità profonda del popolo cattolico (si pensi, solo per fare due esempi, al variegato quanto affollato filone politico del cd. ‘catto-comunismo’ italiano o all’analogo esperimento dei “cristiani per il socialismo” che guidò – intra Ecclesiam – la ripetuta e violenta contestazione pubblica al Magistero negli ultimi anni del drammatico pontificato di Paolo VI (1963-1978).
Di fronte a questi fenomeni, un tempo esclusivamente di nicchia, ma con i recenti – e dirompenti – processi di globalizzazione diventati purtroppo sempre più di massa, la Chiesa ha ricordato ai fedeli cristiani come la soluzione alle lotte e alle ingiustizie sociali non vada ricercata in ‘ricette’ di stampo politico-partitico (tanto più di marca, o d’ispirazione, laicista) necessariamente viziate da un chiaro difetto di comprensione ab origine (la negazione del primato di Dio e della sua Signoria sul creato) quanto in quel ricco bagaglio di esperienza umana, teoretico-pratica, che negli ultimi due secoli è stato magistralmente sintetizzato, e poi si è diffuso, con l’espressione autorevole di ‘Dottrina sociale della Chiesa’.
Con questa espressione, come noto, la Chiesa intende l’insieme di direttive e di raccomandazioni pratiche a cui i cristiani impegnati ordinariamente nel mondo sono chiamati ad ispirarsi per la loro azione di missione e di evangelizzazione quotidiana, nella politica, come nell’economia e in ogni altro aspetto della società. Il fondamento si trova in ultima analisi nel Vangelo, letto secondo la Tradizione apostolica e alla luce dei documenti del Magistero pontificio, in particolare le encicliche sociali, a partire – almeno – dalla Rerum novarum (1891) di Papa Leone XIII (1878-1903).
Tuttavia, come hanno sottolineato gli stessi Pontefici, sarebbe nondimeno fuorviante fondare su questo documento la nascita e la ragion d’essere stessa della Dottrina sociale della Chiesa. Infatti, per citare il beato Giovanni Paolo II [l’istituzione della Dottrina sociale della Chiesa] “risale ben al di là degli ultimi novant’anni. La Dottrina sociale della Chiesa, infatti, trova la sua sorgente nella Sacra Scrittura, a cominciare dal libro della Genesi e, in particolare, nel Vangelo e negli scritti apostolici” (Giovanni Paolo II, Discorso in occasione del 90° anniversario dell’enciclica Rerum novarum, 15 maggio 1981).
Con queste parole il Pontefice voleva mettere in guardia gli stessi cristiani da una visione inappropriata, modernista o comunque ‘di rottura’, dello statuto complessivo originario della Dottrina sociale, quasi che essa fosse un’ideologia nuova inventata dalla Chiesa negli ultimi decenni per combattere le altre ideologie dominanti della modernità. Nulla di tutto ciò: si trattava, piuttosto, come spiegherà ancora Giovanni Paolo II nella Sollicitudo rei socialis (1987) di un approfondimento dell’insegnamento tradizionale della Chiesa in tema di teologia morale sociale e come tale andava letto, diffuso e interpretato. Ne derivava quindi un’autonomia propria della disciplina, peculiarissima e assolutamente originale, perché fondata in definitiva sulla Parola stessa di Dio. In un momento storico in cui i cristiani, soprattutto in alcune aree d’Europa, avevano perso la speranza e sembravano andare passivamente a rimorchio delle ideologie mondane il Papa riproponeva così una visione alta e missionaria della vita cristiana che ripartiva dalla pretesa di rievangelizzare il mondo, sfera politica compresa, conquistando le anime a Dio e, così, ricostruire con pazienza quella che un tempo era stata la prima civiltà cristiana della storia. Non si trattava, dunque, di cercare una “terza via” tra capitalismo e marxismo, come pure qualcuno allora disse, quasi che il compito primo del cristiano nella società fosse quello di mediare tra gli opposti cercando una via di mezzo, quanto piuttosto di ritrovare la via d’accesso a Cristo in quel mondo occidentale che l’aveva dimenticato. Come aveva scritto a suo tempo Paolo VI nella Populorum progressio (1967) bisognava rendersi insomma conto che “l’annuncio di Cristo è il primo e principale fattore di sviluppo” e che esso non è mai estraneo alla crescita (anche materiale) dei singoli popoli. Detto in altre parole, la contingente questione economica, e quindi sociale, doveva essere ricondotta al piano della Creazione e alla storia della salvezza nel suo insieme, che prevedeva anche la presenza di variabili solitamente non prese in considerazione dagli operatori economici, come l’esistenza del peccato originale e quello personale: solo in quest’ordine si sarebbe trovata la strada per uscire dalla crisi che allora la attraversava.
Vista in quest’ottica la Dottrina sociale della Chiesa appariva finalmente in tutta la sua luce per quello che realmente era: una forma esigente di teologia della storia, ovvero un’analisi dei ‘segni dei tempi’ secondo il perenne Magistero cattolico. A questo pensava anche Papa Giovanni XXIII (1958-1963) quando nell’enciclica Mater et magistra (1961) scriverà che la Dottrina sociale andava considerata come “parte integrante della concezione cristiana della vita” e come quindi fosse impensabile potersi dire pubblicamente cristiani senza da questa affermazione derivarne anche le conseguenze ultime, annunciando cioè Cristo in ogni ambito della propria vita, “opportune et importune” per usare una felice espressione di San Paolo a Timoteo (2 Tim 4, 2), anche in quegli spazi pubblici dove poteva essere più costoso. In questo senso, lo stesso Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965), lungi dal segnare la capitolazione della Chiesa di fronte al mondo, cercherà di rilanciare una nuova stagione missionaria del laicato, con parole piuttosto significative. Parlando infatti dei loro compiti specifici, il decreto sull’apostolato dei laici del Concilio, l’Apostolicam Actuositatem, esorta gli stessi a [imparare] “soprattutto i princìpi della Dottrina sociale e le sue applicazioni, affinché si rendano capaci sia di collaborare, per quanto loro spetta, al progresso della dottrina stessa, sia di applicarla debitamente nei singoli casi” invitandoli altresì a “trattare le cose temporali ordinandole secondo Dio” e, ancora nella costituzione dogmatica Lumen Gentium, a “illuminare e ordinare tutte le cose temporali, alle quali sono strettamente legati, in modo che sempre siano fatte secondo Cristo, e crescano e siano di lode al Creatore e Redentore”.
Il successivo Catechismo della Chiesa Cattolica (1992) e soprattutto il Compendio della Dottrina Sociale, pubblicato nel 2004 ad opera del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace sotto la guida e l’ispirazione dell’indimenticabile cardinale vietnamita François Xavier Nguyên Van Thuân (1928-2002), ma voluto fortemente da Papa Giovanni Paolo II, ribadiranno la centralità dello studio della Dottrina sociale nella vita interna della Chiesa rilanciandone una nuova e, si spera, più fortunata diffusione. Come ha ricordato da ultimo Benedetto XVI nella Caritas in veritate (2009), infatti, “essa [la Dottrina sociale] è ‘caritas in veritate in re sociali’: annuncio della verità dell’amore di Cristo nella società. Tale dottrina è servizio della carità, ma nella verità. La verità preserva ed esprime la forza di liberazione della carità nelle vicende sempre nuove della storia. È, a un tempo, verità della fede e della ragione, nella distinzione e insieme nella sinergia dei due ambiti cognitivi. Lo sviluppo, il benessere sociale, un’adeguata soluzione dei gravi problemi socioeconomici che affliggono l’umanità, hanno bisogno di questa verità. Ancor più hanno bisogno che tale verità sia amata e testimoniata. Senza verità, senza fiducia e amore per il vero, non c’è coscienza e responsabilità sociale, e l’agire sociale cade in balia di privati interessi e di logiche di potere, con effetti disgregatori sulla società, tanto più in una società in via di globalizzazione, in momenti difficili come quelli attuali”.
In Il Corriere del Sud n. 13
anno XXI/12, p. 3