Con lo sguardo di Sant’Amelia

Con lo sguardo di Sant’Amelia

Di Benedetta De Vito

 

La notte di Natale, quando il sonno punzecchiava gli occhi e il freddo pungeva le ginocchia nude, mi caricavano, con una schiera di fratelli e cugini, nella Peugeot amaranto di mio padre per andare alla Messa di Mezzanotte a San Gregorio al Celio.  La scalea bianca che conduce alla splendida Basilica intitolata a Gregorio Magno, lumeggiava il buio, come i pesci nel mare durante la pesca con le lampare, ma noi, giunti a metà dei gradini marmorei, piegavamo sulla sinistra e, attraverso una porticina socchiusa, entravamo in un giardino incantato, di erbe spettinate, fiori di campo,  muschi odorosi C’erano, ricordo, le lucciole che ballavano nelle tenebre. Nell’oratorio di Sant’Andrea, Monsignor Desiderio Nobels, che era anche abile disegnatore, celebrava la messa natalizia per il gruppo scout Roma 51. Mio fratello, sull’attenti, abbracciato al suo stendardo, era il mio eroe…

Non sapevo, allora, perduta in un’infanzia innocente, che quella piccola chiesa con i suoi due oratori gemelli (uno dedicato a Santa Silvia e l’altro a Santa Barbara) fosse parte della domus della gens Anicia e che da quella schiatta senatoria fosse germogliato Gregorio Magno, il grande Papa del canto gregoriano. E non solo lui. A far l’elenco dei servi di Dio della stirpe anicia c’è da perdere il conto. Cominciamo, con un gigante, Benedetto da Norcia (e infatti Gregorio si fece benedettino), il fondatore del monachesimo d’Occidente. Poi due Papi: San Felice III e Sant’Agapito. Agapito era il nonno di Gregorio e  Felice il suo bisnonno. Una corona di santità che abbracciò poi anche la mamma di Gregorio, Silvia, nobilissima siciliana della gens Valeria (una delle cento famiglie che erano il fior fiore della romanità), la quale, una volta divenuta vedova, scelse di ritirarsi in un convento nel piccolo Aventino. Si chiamava Nova Cella. Ora è San Saba, nella Remuria, cioè il luogo dove, secondo la tradizione, fu sepolto Remo. Proprio qualche giorno fa, passeggiando lungo la Via Aventina (dove abitava Monsignor Nobels) al numero  tal dei tali, che non ricordo, c’è un bassorilievo marmoreo, moderno, che ritrae un pastore seduto tra i suoi armenti e gli animaletti del bosco: Remo prima della Fondazione e del fatale litigio col gemello.

E torniamo agli Anici che ebbero altri fiori nel giardino della santità, fiori timidi, solitari, umili, silenti, come le violette che crescono all’ombra dei pini svettanti al cielo. Proviamo a farci piccini e a spiare, per pochi istanti, da una finestrella aperta, la quotidianità nella domus di Gregorio. Il pater familias, Gordiano, solenne senatore, intento ai suoi affari, la dolce Silvia, operosa nella carità (e non a caso proprio qui al Celio hanno dimora e casa le suore missionarie della carità di Madre Teresa di Calcutta), le sorelle nubili di Gordiano, cioè le zie di Gregorio, Tarsilla, la maggiore, Gordiana, la mediana, e l’ultima, Emiliana, detta, con tenera familiarità Amelia. Un nome tanto grazioso, rovinato, si può dire, da un personaggio della Disney, un nome che per me, bambina, aveva il volto della migliore amica di mia nonna: una signora eccentrica,  con i capelli turchini, pittrice. I suoi quadri, tutti vasi di fiori, profumano ancora oggi nella mia cucina.

Le tre sorelle, vergini, caste, erano tutte votate al Signore, rinunciarono al matrimonio (ma Gordiana alla fine si sposò), vivevano, in semplicità e umiltà, nella casa del fratello, aiutando a tirar su il nipotino che era assai cagionevole di salute. Sicché, spiando dalla nostra finestrella, avremmo potuto vedere le tre sorelle intente a insegnare a Gregorio la Parola, a metterla in pratica con i gesti e nel pensiero, a viverla in rettitudine indicando con l’esempio la via stretta da seguire.  Forse giocavano proprio in questo giardino. Gregorio di certo le amava e cullato dalla loro dolcezza ricambiò l’amore loro, raccontando in una sua famosa omelia, il prodigio che unì per sempre le due zie, Tarsilla ed Emiliana, allora già nelle mani di Dio.

Racconta, Gregorio, che Tarsilla, morì di malattia il giorno di Natale di un anno che ha il suo posticino alla fine del Secolo Sesto. Morì, lasciando Amelia nello sgomento e Gordiana piena di dubbi circa la Provvidenza. Fu sepolta, pianta, affidata al Signore, ma una notte, Amelia la sognò che le diceva: “Poiché non hai festeggiato con me il Natale, vieni, sorellina, a trascorrere con me l’Epifania!”. Nessuno le credette, erano fantasie, fole, chimere. Ma Amelia, ai primi di gennaio, si ammalò e morì il giorno 5, in tempo per contemplare dal cielo, con sua sorella, l’arrivo dei Magi a Betlemme.

Cammino, adesso, lentamente, con il peso degli anni, nei luoghi che furono i suoi, nel giardino dove sicuramente avrà intrecciato, come facevo io, ghirlande di margherite o rubato, stemperando i petali nell’acqua, il profumo alle rose. Più in là, i resti della biblioteca di Agapito dove, sicuramente, avrà letto e studiato i libri sacri, tradotti da San Girolamo, con il nipotino sulle ginocchia. Sì, sì ora che ci penso, Santa Amelia  (come anche Santa Tarsilla)  è la dolce zia che abbiamo avuto tutti da piccoli, la zia che aveva più tempo e più pazienza della mamma e che cuciva il costume di carnevale, leggeva le favole, cucinava le crostate. Oppure, come una zia amorevole e devota, che conosco io e che mi è cara nella preghiera,  la quale per vedere sorridere le sue sei  nipotine ha regalato tante gonnelline fiorite da me confezionate su misura…

Cammino, dunque, nei luoghi di Amelia, respirando il verde intorno che non è più spettinato e selvatico, ma, come fresco di parrucchiere, e ha perduto un poco di poesia. Di certo, la notte non si accendono più le lucciole. Ma, bando alla malinconia, poco male. Entro nell’oratorio di Santa Barbara, dove trovo la mensa di marmo che Gregorio, Silvia e le tre zie, usavano per far accomodare  a mangiare dodici poveri, la mensa santa che vide un altro prodigio: l’angelo che sedette a tavola a far da tredicesimo. L’Arcangelo Michele apparve  poi a Gregorio sul Mausoleo di Adriano, rimettendo la spada nel fodero, per annunciare a Roma che la pestilenza (che aveva sconvolto l’Urbe e durante la quale tutti gli Anici, comprese le nostre dolcissime Amelia e Tarsilla si erano prodigati, a mani nude e senza mascherina, per la popolazione) era finita. Ed è per questo che il monumento cambiò nome e, scordandosi di essere la tomba di un imperatore, divenne per sempre Castel Sant’Angelo.

Prima di lasciar questi luoghi santi,  non posso non fare una visitina all’Oratorio di Sant’Andrea, che mi accoglie, in dolce abbraccio di memoria, come mi accoglieva quando ero ancora bambina. Ed è, per il cuore, come bere un bicchiere di menta ghiacciata quando l’asfalto si squaglia per l’afa d’agosto. Una volta dentro, fatti genuflessione e segno della Croce, mi volgo sulla destra, come facevo sempre allora, ad ammirare un affresco che mi affascinava e che adesso so essere opera di un pittore che amo, cioè il Domenichino. E ritrovo lì, ancora bambina, la bambina che mi guardava in faccia allora, quando ero più o meno dell’età verde sua. Una piccina che, davanti all’orrore del supplizio di Sant’Andrea, si stringe alle ginocchia di sua madre, e guarda noi che con lei precipitiamo nello spavento e nell’orrore.  E solo ora, per illuminazione, so perché mi guardava  diritto negli occhi:  mi diceva che il supplizio per chi segue la Croce è sempre vivo e non passa mai e che, anche se i capelli diventano grigi e il passo stanco, noi, nutriti dalla fede che è eterna rinascita, dobbiamo amarlo e servirlo in purezza, con gli occhi, l’anima e il cuore dei bambini. Con lo sguardo di Sant’Amelia.

 

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