Esclusivo. Le problematiche di fine vita, le riflessioni di una bioeticista
Di Giulia Bovassi*
«Il valore inviolabile della vita è una verità basilare della legge morale naturale ed un fondamento essenziale dell’ordine giuridico.
Così come non si può accettare che un altro uomo sia nostro schiavo, qualora anche ce lo chiedesse, parimenti non si può scegliere direttamente di attentare contro la vita di un essere umano, anche se questi lo richiede».
Samaritanus Bonus è una straordinaria e lapidaria finestra su ciò che la ragione coglie da sé, per natura, e che la fede conferma riconoscendo alla vita di ogni essere umano, per il solo fatto di
appartenere alla specie umana, non solo dignità intrinseca e valore inviolabile, bensì la sacralità che innalza il mistero della persona, spirito incarnato.
La bioetica personalista ha tre presupposti fondamentali: realismo epistemologico, etico-antropologico e l’apporto etico nell’agire scientifico i quali tendono al vero bene della persona, principio e fine del processo di guarigione, cura e accompagnamento. Una persona paziente che esige da parte del medico, proprio in virtù della dignità detenuta per natura, che vengano poste in essere azioni orientate sempre al principio di beneficenza e lontane da ogni forma di maleficenza causata direttamente, volutamente. Questo poiché la vocazione autentica dell’arte medica non è un mercato domanda-offerta dei bisogni o dei desideri (soprattutto quando essi si identificano in pretese uccisive), quanto piuttosto risposta alla malattia, alla sofferenza psico-fisica e al dolore che ne consegue.
I tre presupposti indicano una negazione dello spirito scetticista, relativista e nichilista; indicano l’accessibilità del dovere morale a partire dall’essere e il valore prescrittivo della morale; indicano inoltre che scienza e medicina non sono immuni dal peso etico poiché atti umani. Pertanto, ciò che il professionista applica non è neutro e neppure meccanico in quanto atto della persona umana; allo stesso modo ciò che il paziente sta affrontando esce dalla nostra concezione temporale, riversandosi in una a-temporalità semantica. I due sanciscono un rapporto di beneficenza e fiducia bilaterale, che si identifica nella cosiddetta “alleanza terapeutica”, «incontro tra una fiducia e una coscienza», grazie alla quale il buon operato medico impone la giusta misura, evitando di procurare ingiuste sofferenze date da logiche di accanimento od omissione, così come la soppressione diretta del paziente.
Come ben ribadito in Samaritanus Bonus il passaggio storico-linguistico sul concetto di “eutanasia” ha visto un piano inclinato vertiginoso innescato dal totale rovesciamento del significato originario del termine il quale indicava l’augurio di una morta degna, ovvero serena e indolore. Nel tempo l’auspicio comunemente condiviso è stato sovvertito da mentalità eugenetiche e utilitariste (darwinismo sociale, razzismo ed eugenismo) nell’atto di causare direttamente la morte (o cooperare al suicidio per quanto concerne il suicidio assistito) al fine di estirpare il dolore dichiarato, vissuto o presunto.
Dal punto di vista etico accettare la morte come fatto inevitabile e procurare la morte sono due atti agli antipodi. Simile sradicamento ha pervertito la verità sull’amore al punto da normalizzare ideologicamente la perifrasi “omicidio per pietà”, dove compassione e carità sono trapiantate nell’atto che più di tutti tradisce la loro logica: togliere la vita.
«Alcuni fattori oggigiorno limitano la capacità di cogliere il valore profondo e intrinseco di ogni vita umana: il primo è il riferimento a un uso equivoco del concetto di “morte degna” in rapporto con quello di “qualità della vita”.
Emerge qui una prospettiva antropologica utilitaristica, che viene «legata prevalentemente alle possibilità economiche, al “benessere”, alla bellezza e al godimento della vita fisica, dimenticando altre dimensioni più profonde – relazionali, spirituali e religiose – dell’esistenza».
In virtù di questo principio, la vita viene considerata degna solo se ha un livello accettabile di qualità, secondo il giudizio del soggetto stesso o di terzi, in ordine alla presenza-assenza di determinate funzioni psichiche o fisiche, o spesso identificata anche con la sola presenza di un disagio psicologico. Secondo questo approccio, quando la qualità della vita appare povera, essa non merita di essere proseguita.
Così, però, non si riconosce più che la vita umana ha un valore in sé stessa.
Un secondo ostacolo che oscura la percezione della sacralità della vita umana è una erronea comprensione della “compassione”.
Davanti a una sofferenza qualificata come “insopportabile”, si giustifica la fine della vita del paziente in nome della “compassione”. Per non soffrire è meglio morire: è l’eutanasia cosiddetta “compassionevole”.
Sarebbe compassionevole aiutare il paziente a morire attraverso l’eutanasia o il suicidio assistito. In realtà, la compassione umana non consiste nel provocare la morte, ma nell’accogliere il malato, nel sostenerlo dentro le difficoltà, nell’offrirgli affetto, attenzione e i mezzi per alleviare la sofferenza.»
Quando manca la consapevolezza piena dell’identità umana, in adesione a sollecitazioni socio-biologiste, si perde in carità, perché subentrano parametri pigri d’amore, impegnati dal benessere esponenziale, utopico, ed è qui che un paziente diventa caso clinico, il corpo sola carne, mentre lo spirito una costruzione idiopatica. Avviene una lacerazione totale. Così, dietro le parti non sussiste più il tutto, ma la funzionalità; perdute utilità ed efficienza viene meno l’uomo, si alza il sipario e appare il capitale umano: l’economia di corpi, su corpi, ovvero «il miglior saldo “ottimifico”, in termini comparativi, dei benefici sui costi, delle soddisfazioni sulle frustrazioni, delle preferenze/interessi (in termini di piacere/gioia) sui danni (dolori/sofferenze)» [F. D’Agostino – L. Palazzani, Bioetica nozioni fondamentali…].
Simili logiche rimandano alle due tipologie eugenetiche attive nella nostra epoca: quella positiva di miglioramento senza debolezza; quella negativa di scarto senza vita/senza difetti. Ambedue rifiutano l’appartenenza della finitudine al genere umano e, pur di evadere dalla domanda di senso che ne deriva, aborriscono la verità stessa della creatura attuando ciò che Z. Bauman definì la «decostruzione della mortalità». Chi ha l’autorità di giudicare l’esistenza di un uomo uno scarto inutile? Entro quali parametri si tenterà di giustificare la cooperazione all’omicidio del consenziente in termini di “libertà” mentre si nega il diritto ad essere fragili? Il consenso – ammesso che ci sia e quand’anche ci fosse ammesso che risponda ad un atto libero – basta affinché un male oggettivo assolva se stesso? La dignità non è un prodotto, ma un riconoscimento al riparo dal consenso.
Torna utile rileggere un caso reale riportato da R. Spaemann, che chiarisce come il consenso non muti la natura di un atto malvagio:
«Voglio ricordarvi un altro esempio, questa volta reale: il ‘cannibale di Rothenburg’, che desiderava uccidere qualcuno e poi mangiarlo e che su internet aveva effettivamente trovato una persona che nutriva il desiderio complementare di essere uccisa e mangiata. E così era accaduto. L’uomo era stato accusato di omicidio. La tesi difensiva era molto semplice: Volenti non fit iniuria. Non era accaduto nulla che la vittima non volesse. Lo Stato non ha il diritto di valutare i desideri e di punirne la realizzazione. Se, ciò nonostante, l’uomo fu punito è stato perché la Corte ha effettivamente valutato quei desideri e precisamente sulla base di una natura umana in cui la dignità dell’uomo può essere violata nonostante il consenso.
Se disapproviamo il comportamento del cannibale, presumiamo un concetto normativo di ciò che è naturale come ‘normale’».
Eutanasia e suicidio assistito nel nostro Paese si rifanno – non casualmente- a reati di omicidio volontario, omicidio del consenziente, istigazione/aiuto al suicidio aiutando a chiarire un aspetto non banale della questione (oltre a decifrarne la sostanza): essere causa diretta o co-protagonista della morte di un uomo non è un atto prettamente medico ed è un atto che viola l’indisponibilità della vita umana, diritto primo tutelato universalmente.
«È per questo che l’eutanasia e il suicidio assistito sono una sconfitta di chi li teorizza, di chi li decide e di chi li pratica»; annientano la vulnerabilità che fonda l’uguaglianza comune da cui origina la reciprocità spingendo il carrozzone edonista verso una matrice globale profondamente dis-umana poiché pretende di assolvere o condannare l’esistenza di un essere umano a seconda di quanto convenga la sua vita a se stesso, alla società. La morte, allora, deve poter essere scelta per diritto sulla gestione di sé, sull’appartenenza a sé, così può dirsi realmente libera. Quando un’idea simile, l’idea di eliminare un uomo per il suo bene, non sconvolge, occorre chiedersi se la libertà più piena non sia forse quella della regola, del vincolo che, nello scandire un perché, sostiene un senso. Il fabbisogno di senso viene stimolato dalle scadenze, eleggendo un trascorso. Vedere l’uomo dietro la condizione, mostrare l’identità fra il corpo vissuto e il corpo saputo, risultato di analisi, dire all’esausto: tu non devi meritare di essere uomo, tu sei ancora, sei già, e io sono qui perché hai bisogno di ricordarlo, soprattutto nel dolore. Il ritorno a questa profonda consapevolezza determina l’essenza di una «comunità sanante».
Samaritanus Bonus – la quale merita uno studio attento da parte di ogni fedele- dichiara con fermezza che: «(…) la Chiesa ritiene di dover ribadire come insegnamento definitivo che l’eutanasia è un crimine contro la vita umana perché, con tale atto, l’uomo sceglie di causare direttamente la morte di un altro essere umano innocente. La definizione di eutanasia non procede dalla ponderazione dei beni o valori in gioco, ma da un oggetto morale sufficientemente specificato, ossia dalla scelta di «un’azione o un’omissione che di natura sua o nelle intenzioni procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore».
«L’eutanasia si situa, dunque, al livello delle intenzioni e dei metodi usati». La valutazione morale di essa, e delle conseguenze che ne derivano, non dipende pertanto da un bilanciamento di principi, che, a seconda delle circostanze e della sofferenza del paziente, potrebbero secondo alcuni giustificare la soppressione della persona malata. Valore della vita, autonomia, capacità decisionale e qualità della vita non sono sullo stesso piano.
Qualsiasi cooperazione formale o materiale immediata ad un tale atto è un peccato grave contro la vita umana: «Nessuna autorità può legittimamente imporlo né permetterlo. Si tratta, infatti, di una violazione della legge divina, di una offesa alla dignità della persona umana, di un crimine contro la vita, di un attentato contro l’umanità».
Dunque, l’eutanasia è un atto omicida che nessun fine può legittimare e che non tollera alcuna forma di complicità o collaborazione, attiva o passiva. Coloro che approvano leggi sull’eutanasia e il suicidio assistito si rendono, pertanto, complici del grave peccato che altri eseguiranno. Costoro sono altresì colpevoli di scandalo perché tali leggi contribuiscono a deformare la coscienza, anche dei fedeli.
La vita ha la medesima dignità e lo stesso valore per ciascuno: il rispetto della vita dell’altro è lo stesso che si deve verso la propria esistenza».
Una delle lezioni più significative impartiteci dalla pandemia è che «nessuno di dà, in ogni istante, la vita che vive», come insegna Giussani. Pertanto, la condizione umana appartiene alla vulnerabilità e il limite appartiene alla condizione umana. Nostro compito è ripartire dalla «didattica della contingenza» [G. Bovassi, L’eco della solidità…] per generare accoglienza anziché abbandono.
* Bioeticista
[…] [1] Articolo originariamente apparso in https://www.informazionecattolica.it/2020/09/25/le-problematiche-di-fine-vita-le-riflessioni-di-una-… […]