Gustave Thibon, maestro di realismo cristiano
Di Giuseppe Brienza
«La Parola di Dio ci spinge a cambiare il nostro concetto di realismo: realista è chi riconosce nel Verbo di Dio il fondamento di tutto. Di ciò abbiamo particolarmente bisogno nel nostro tempo, in cui molte cose su cui si fa affidamento per costruire la vita, su cui si è tentati di riporre la propria speranza, rivelano il loro carattere effimero». Questo è quanto ha scritto Benedetto XVI nella sua recente Esortazione Apostolica postsinodale “Verbum Domini”, all’Episcopato, al Clero, alle persone consacrate e ai fedeli laici “Sulla Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa” (Città del Vaticano 30 settembre 2010, n. 10).
Maestro contemporaneo di realismo cristiano da riproporre anche alla luce dell’invito del Santo Padre è il francese Gustave Thibon (1903–2001), il cui “ritratto anagrafico” già ne fa apprezzare la “solida” fisionomia culturale e spirituale, soprattutto in un tempo come il nostro di intellettuali ed opinionisti cosmopoliti e sradicati.
Il filosofo cattolico, infatti, figlio e nipote di contadini, nasce in una piccola città rurale, all’inizio del Novecento di poco più di 2.000 abitanti, situata nel sud (Midi) della Francia, Saint-Marcel-d’Ardèche, dove pure muore, quasi centenario, il 19 gennaio 2001. Thibon si forma da autodidatta, a contatto diretto di libri e testimoni viventi, senza passare per i canali della scuola e dell’università e quindi, già da questi pochi elementi, se ne desume l’anelito all’universalità cattolica “fuso” nella sua personalità culturale con il più autentico senso del radicamento. Come bene ha detto uno dei suoi migliori biografi, Danièle Masson, «uno dei modi migliori per comprendere Gustave Thibon è quello di conoscere la sua regione» (cit. in G. THIBON, Au soir de ma vie. Mémoires recueillis et présentés par Danièle Masson, Plon, Parigi 1993, p. 79).
Thibon rivive in un recente film italiano
La figura del “filosofo-contadino” (così definito perché apprese la filosofia, il latino, il greco, il tedesco e lo spagnolo leggendo Seneca, Platone, Holderlin e Cervantes lavorando nei campi) rivive in Italia attraverso un film uscito nel marzo del 2011 nelle nostre sale, anche se presto ritirato come spesso accade per i prodotti culturali “impegnati”. S’intitola “Le stelle inquiete”, ed è stato girato dalla regista torinese Emanuela Piovano (87 min., Italia 2011), che l’ha focalizzato intorno ad un episodio della vita della filosofa ebrea-francese Simone Weil (1909-1943), molto amica di Thibon.
Non molti sanno che proprio quest’ultimo scelse e dispose la prima antologia degli inediti della filosofa ebrea, La Pesanteur et la Grâce, pubblicata dall’editore Plon nel 1947, dalla quale per esempio un Augusto Del Noce saprà trarre considerazioni importantissime.
La Weil stessa, prima di lasciare Marsiglia alla volta di New York il 7 giugno 1942, aveva affidato all’amico i suoi undici Quaderni con la libertà di disporne. E fu questa antologia che la fece conoscere come pensatrice, dopo che lo era già come polemista e saggista impegnata.
Non so se è un caso ma, poche settimane dopo l’uscita del film “Le stelle inquiete”, è stato pubblicato per una importante casa editrice francese un libro che raccoglie preziosi testi inediti del “philosophe-paysan” (cfr. GUSTAVE THIBON, Parodies et mirages ou La décadence d’un monde chrétien notes inédites, 1935-1978, Éditions du Rocher, Paris 2011, pp. 192, info.editionsdurocher@ddbeditions.fr), ad ulteriore testimonianza che, Oltralpe, la sua eredità culturale è ancora viva (ricordiamo a questo proposito che, nella seconda metà del Novecento, Thibon ha ricevuto numerosi riconoscimenti nel suo Paese, fra cui, nel 1964, il Prix de littérature de l’Académie française e, nel 2000, il Prix de philosophie della medesima Istituzione culturale, fondata nel 1635 sotto Luigi XIII). Ne ripercorriamo quindi i principali tratti, a seguito di una necessaria premessa sul suo percorso religioso-spirituale.
La “ri-conversione” al Cattolicesimo
Figlio del suo secolo, Thibon abbandona infatti da adolescente la fede cattolica, per poi ritornare sui suoi passi all’età di venticinque anni. Dopo la conversione compie da solo studi di filosofia e di storia del pensiero ed è profondamente segnato dal pensiero di san Tommaso d’Aquino (1225 ca.-1274) e san Giovanni della Croce (1542-1591) ed, attraverso un rapporto dialettico, dallo stoicismo classico e dall’opera di Friedrich Nietzsche (1844-1900).
Diventa quindi fra i più acuti critici del “mondo in frantumi” della modernità filosofica, al quale oppone la Croce di Cristo che sola salva, apprezzata pure nei suoi risvolti culturali, politici e sociali, e incarnatasi in una tradizione bimillenaria di cui il giovane Thibon impara progressivamente a riconoscersi come figlio.
La decadenza della Modernità
Nel cuore dei suoi scritti c’è un’analisi efficace ed originale delle storture della Modernità ed una denuncia dei suoi errori e contraddizioni, che la portano ad una decadenza che è, insieme, morale e demografica. Anche su questo punto la sua interpretazione non può che partire dalla sua biografia, e da quel luogo natìo dove, nella seconda metà del XIX secolo e la prima metà del XX, l’esodo rurale (come altrove sia in Francia sia in Europa), dovuto a continue crisi agricole, provocava una riduzione notevole della popolazione (i 1.046 abitanti di Saint-Marceld’Ardèche nel 1954, ammontano infatti a meno della metà rispetto ai 2.358 del 1856). Della crisi morale e natalistica dovuta all’abbandono dei valori del mondo rurale ed conseguente alla desertificazione delle campagne parlava anche, negli stessi anni della maturità intellettuale di Thibon, Pio XII, ad esempio nell’Enciclica Sertum Laetitiae, pubblicata il giorno della Festa di Tutti i santi del 1939, nel 150° Anniversario della istituzione della Gerarchia Ecclesiastica negli Stati Uniti.
Papa Pacelli vi denunciava come “radice amara e fertile di mali”, fra l’altro, “la diserzione dalle campagne, la leggerezza nel contrarre il matrimonio, i divorzi, la disgregazione delle famiglie, il raffreddamento del mutuo affetto tra genitori e figli, la denatalità”.
“Ritorno al reale. Prime e seconde diagnosi in tema di fisiologia sociale”
Per le Effedieffe edizioni di Milano, il giornalista e scrittore Marco Respinti ha utilmente rieditato nel 1998 le due opere più famose di Thibon, Diagnosi e Ritorno al reale, che rappresentano un salutare antidoto all’irrealismo della nostra società, dove la relativizzazione dell’esistenza si è ormai sostituita a quella visione reale e naturale della vita di cui i nostri avi ricordano con nostalgia i brandelli.
Il creato di Thibon, seppur sovente aspro e talvolta enigmatico, è stato infatti per molti una casa accogliente. Quello della campagna è un mondo rappacificato, segnato da quella penitenza che permette la riconciliazione dell’uomo con se stesso, dunque con la creazione, infine con il Creatore.
A questo proposito scrive Thibon nell’Introduzione al volume sopra citato: “Noi vogliamo un rifacimento centrale della società che, a tutti i gradi della scala sociale, assicuri agli uomini una larga indipendenza nei confronti del denaro. In altri termini, vogliamo sostituire, come criterio dello sforzo di un uomo e del suo posto nella gerarchia, ì valori vitali e spirituali ai valori finanziari”.
“Se venissi interrogato sulla mia concezione della morale – aggiunge sempre in Ritorno al reale, al capitolo XXXIV –, confesserei volentieri che la differenza tra nobile e basso mi sembra più essenziale della differenza tra bene e male. Ma in che cosa consiste sostanzialmente la nobiltà? In primo luogo nel rifiuto della facilità (piccoli profitti, calcoli meschini, impiego di tutti i mezzi per arrivare e per dominare, ecc): l’uomo nobile è quello che sceglie i mezzi. In secondo luogo nel disprezzo per un certo tipo di prudenza: l’essere nobile sa rischiare…la nobiltà interiore e reale consiste nell’essere distanti nei confronti di sé stessi. L’uomo nobile pone la ragion d’essere della sua esistenza e la sorgente delle sue azioni in una fede, un ideale, un codice d’onore che s’innalzano enormemente al di sopra del suo meschino io”.
Così ci insegna ancora oggi un pensatore che ha dedicato tutta la propria esistenza – vita e produzione culturale – alla ricerca, alla descrizione e alla difesa della Verità e dell’Ordine, conscio, assieme a Simone Weil, entrambi rappresentino la prima di tutte le necessità collettive ed individuali.
In Corriere del Sud n. 15
anno XX/11, p. 3