Il requiem del “sogno americano” secondo Noam Chomsky
Di Mauro Rotellini
Noam Chomsky è, diremmo, personalità piuttosto famosa e versatile. È un filosofo, scienziato cognitivista, teorico della comunicazione, accademico e saggista molto conosciuto negli Stati Uniti. Insegna al Massachusetts Institute of Technology, MIT, ed è famoso sia per i contributi che ha portato alla linguistica sia per il suo attivismo politico-culturale. In Italia è più ripreso per questo secondo aspetto, in quanto portatore d’idee radicali e d’ispirazione anarchica. Chomsky denuncia in particolare il sistema dei mass media che descrive come un gruppo elitario di potenti gestori delle informazioni che riesce a determinare una graduatoria di priorità delle notizie stesse, a cui tutti gli altri operatori devono – alla fine – adeguarsi. In questo modo chi gestisce le informazioni gestisce il vero potere.
Feroce nemico del GOP, il Grand Old Party, il Partito Repubblicano statunitense, di questo eclettico e non certo tutto condivisibile Autore è uscito per i tipi di Ponte alle Grazie il libro “Le dieci leggi del potere. Requiem per il sogno americano” (Milano 2017, pp. 175, € 14), nel quale si legge la realtà USA contemporanea come un mondo in cui non esiste più spazio per il “sogno”. La possibilità, cioè, tipica della società statunitense, per cui ciascuno può di fatto arrivare a disporre della propria vita contando sulle sue sole proprie forze. È questa, per esempio, la storia di moltissimi emigrati italiani, partiti dalla Penisola e arrivati sotto la Statua della Libertà per realizzare una vita nuova partendo dal mestiere che avevano imparato nella loro patria. Spesso migliorando non poco il proprio status e ponendo le basi per un ulteriore progresso sociale nella vita dei figli: «nasci povero, lavori sodo, diventi ricco».
Oggi, afferma Chomsky, non è più così: «la mobilità sociale è più ridotta negli USA di quanto non lo sia in Europa». L’aspetto più evidente della morte di questo sogno è il grado di disuguaglianza, che cresce in continuazione. Chomsky si riferisce alla disuguaglianza di natura economica che ha le sue origini nello straordinario processo di concentrazione della ricchezza che si è realizzato da trent’anni a questa parte nel mondo occidentale e negli Stati Uniti. In pratica, le classi dirigenti mettono in pratica la “vile massima” (così la chiamerà per tutto il libro…) secondo cui occorre operare affinché «tutto sia per noi e niente per gli altri».
Ma quali sono queste dieci leggi del potere di cui parla Chomsky? Non possiamo esimerci dal farne l’elenco. Ad ognuna di esse l’Autore dedica un capitolo, che si struttura partendo sempre dalla citazione delle fonti ideologiche di quella legge, sempre pensatori statunitensi del secolo XVIII e XIX.
La prima legge è «ridurre la democrazia», cioè lo scontro tra la volontà della classe dirigente di ampliare il proprio potere e i desideri del popolo di espandere gli strumenti della democrazia.
La seconda è «plasmare l’ideologia», che deve essere adeguata alla necessità di ridurre gli eccessi di democrazia.
La terza è «ridisegnare l’economia», spostando il fulcro della stessa dal settore manifatturiero a quello finanziario (e ognuno ne vede i risvolti sociali: nel primo caso fulcro della società sono gli operai, nel secondo i finanzieri).
La quarta legge è «scaricare i costi», nota in Italia come privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite.
La quinta legge è terribile,«aggredire la solidarietà», che significa ristrutturare sostanzialmente annullandolo il welfare state. Non è un caso – nota Chomsky – che il dibattito nel mondo occidentale ruoti sempre intorno alla sostenibilità di questo settore, accusato di portare al fallimento gli Stati. Ma anche il sistema dell’istruzione pubblica (nel caso USA) è sotto attacco. L’obiettivo? Quello di far dimagrire lo Stato e quindi fa diminuire le tasse.
Già dall’esame della prima metà delle leggi risuonano forti i richiami alla realtà europea ed anche italiana. Diremmo che non starebbero affatto male alcuni esempi tratti dalla contemporaneità nazionale applicativi delle “leggi” finora descritte. E quindi: l’attenzione continua alla performance borsistica o il richiamo ossessivo ai “mercati”, allo spread etc. quale principale sintomo per la valutazione dell’operato di un Governo; il dibattito permanente sulle pensioni, l’appello ad un voto popolare “responsabile” (accettato solo quando in sintonia con i Poteri Forti), non sono forse temi della cronaca politica del nostro Paese che vedreste bene come altrettanti “casi di studio” del libro di Chomsky?
Ma passiamo ora ad esaminare le successive cinque leggi. Ricominciando dalla sesta, «controllare i controllori», affinché l’attività del controllare sia svuotata di contenuto [le banche in particolare, il cui ruolo ha conosciuto un ulteriore sviluppo, tanto che, con un bel gioco di parole inglesi, da troppo grandi per fallire (“too big to fail”), sono diventate addirittura troppo grandi per andare in prigione(“too big to jail”)].
La settima legge è l’«ingegneria delle elezioni», laddove le potenti forze che influenzano le società capitalistiche riescono ad influenzare il voto attraverso il finanziamento di questo o quel candidato.
L’ottava «tenere a bada la plebaglia», che significa tentare di ridurre ogni spazio di espressione del sindacato, del movimento dei lavoratori, dell’associazionismo.
La nona «fabbricare il consenso», con il sapiente uso del marketing e della pubblicità, per creare alla fine una persona che è contenta di quel che ha, che è nulla rispetto a quello che possiede la parte privilegiata della nazione.
E infine l’ultima legge, diremmo “ricapitolativa” di tutte le altre: «marginalizzare il popolo». Sotto questa nozione rientrano tutte le scelte politiche che non mirano alla realizzazione dell’interesse popolare, ma a quello pochi privilegiati, cioè gli «happy few» come li chiama Chomsky. Ma il pericolo che deriva da quest’ultima annotazione è enorme, perché il popolo oltre un certo livello può reagire in maniera violenta. Il grado di conflittualità della società aumenta sempre di più fino a che, alla fine osserva Chomsky, appare l’Uomo forte. Quello che il filosofo anarchico individua nell’attualità nel presidente Donald Trump e, per questo, ricorda come «Da molti anni metto in guardia[…]sul rischio che negli Stati Uniti si faccia strada un ideologo puro, carismatico, che sfrutti la paure e la rabbia che covano da lungo tempo nella società»…Con questa denuncia si chiude un libro che, al di là di alcuni aspetti, risulta interessante e ben fatto. Sono rilevazioni concrete quelle rilevate da Chomsky. Ognuno può ritrovarci parti e spezzoni della realtà di oggi. Ma, appunto, solo parti e spezzoni. Perché nella parte relativa all’analisi del contemporaneo, l’Autore non riesce a sfuggire all’unilateralità del suo punto di vista politico: i democratici, i sindacati, i movimenti popolari sono buoni; i repubblicani, le oligarchie, le personalità di “destra” sono cattive. Il classico manicheismo di sinistra. Sfugge completamente – non conosciamo il grado di consapevolezza dell’Autore, ma certo non ne troviamo traccia – il ruolo che il Partito democratico statunitense ha tenuto nel concretizzarsi dell’attuale situazione. E, d’altronde, se è vero che siamo di fronte ad una vera e propria ingegneria delle elezioni, dobbiamo pensare che questa esista anche quando vincono i democratici. Non sembra proprio che i candidati democratici sboccino dal terreno vergine della società USA.
Un altro punto debole del ragionamento di Chomsky è quello di considerare Trump come l’“Uomo forte” per antonomasia. Ora, nel gergo politico per “Uomo forte” s’intende quello che si impone alle Istituzioni, magari le cambia, ma sicuramente le piega ai suoi voleri. È importante soffermarsi su questo punto, perché la critica a Trump coinvolge anche la critica ai populismi europei. Vi sembra che le Istituzioni americane soffrano di una qualche limitazione nella loro attività? Se pensate ad esempio al Russiagate, alle accuse di evasione fiscale ed agli scandali sessuali che sono stati agitati in questi mesi, non pare proprio che l’opposizione americana sia in qualche maniera conculcata! Questa definizione di “Uomo forte”, quindi,proviene indubitabilmente dal passato e, la sua vetustà, si sente. Viene da un periodo in cui oggettivamente la sovranità risiedeva in poche realtà o Istituzioni. Ma oggi si può sostenere che sia ancora così? La sovranità (intesa non fosse altro che come attività di controllo) oramai risiede anche in organi e istituzioni non elettive (pensiamo al ruolo dei media e a quello dei sindacati), spesso di proiezione multinazionale e, questo, riduce di molto la possibilità che ci sia davvero un solo “Uomo forte” al comando.
In Corriere del Sud n. 9
anno XXVII/18, p. 3