Ci vuole davvero tanto coraggio per vivere il Cristianesimo
di Padre Enzo Vitale
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PAGINE DA RILEGGERE
Alla prova dei fatti il cristianesimo non è cosa da donnicciole. È necessario essere uomini, uomini veri, per seguire Gesù Cristo. E per essere uomini non conta l’età anagrafica. Necessita la solidità del cuore, che può essere saldo, irreprensibile, impavido anche in tenera età perché si è innamorati della Verità.
E per vivere quello che Cristo ci chiede di vivere, e per viverlo come Lui dice di viverlo, di coraggio davvero ce ne vuole tanto.
Tutti sono bravi a giudicare: alcuni esternano il giudizio, altri lo elaborano nella loro mente nascondendolo nel loro animo certi che “è proprio come pensano”, altri ancora si dilettano a dar consigli su come comportarsi quando c’è da richiamare un “fratello” (tipico questo, purtroppo, dei sacerdoti… e chi scrive si può permettere di farlo…), fatto sta che, sono davvero pochi, rarissimi, coloro che, paternamente, sanno richiamare un fratello che si è incamminato su una brutta strada.
«Non ascolta», «Io, poi, perdo il controllo se lui non accetta quello che ho da dire», «È una persona troppo irascibile, ha un caratteraccio: con lui non ci si può parlare»,
«Tempo perso: lasciamolo stare. Cuocerà nel suo brodo», «Prego ogni giorno per lui: l’ho affidato a Dio, ci penserà Lui».
…e via discorrendo snoccioliamo scuse come litanie, senza accorgerci che, rivestendo i panni di ipocriti farisei,rasentiamo la bestemmia senza neanche rendercene conto.
E tutto questo perché?
Non abbiamo il coraggio di “affrontare” il fratello!
Ed il problema è proprio lì, nel verbo che usiamo: non si tratta di “affrontare”, bensì è “incontrare”, “andare incontro”.
Non sono poche le scuse che presentiamo a noi stessi e agli altri pur di evitare di guardare negli occhi il fratello e ammonirlo. Eppure non c’è pagina del Vangelo più dettagliata, più ricca di particolari e, diremmo oggi, precisa nelle sue “linee guida”, come nel caso dell’ammonimento del fratello.
Ma quanto coraggio sia necessario per fare ciò, solo chi lo ha sperimentato può saperlo.
La storia della Chiesa ci ha regalato esempi fulgidi di santi che con il loro coraggio hanno saputo percorrere le strade della santità, la strada verso Dio. Mi viene in mente un nome: San Bernardo da Chiaravalle. Un cavaliere, che lasciato tutto, si è messo al servizio totale di Dio. Il mondo pensa che lui, e molti altri come lui, chiudendosi in un monastero, si siano nascosti al mondo.
Tutt’altro!
Hanno continuato a lottare.
E chi conosce la vita di san Bernardo sa bene come il suo coraggio sarà più volte messo alla prova.
Qualcuno, a ragione, ha detto: «Bisogna imparare a stare in ginocchio, per poter stare in piedi» e la preghiera, in questo caso diventa palestra per l’animo che si rafforza, che si predispone ai venti aggressivi della vita.
Purtroppo, per alcuni, lo stare in ginocchio, il pregare, diventa misera scusa per non agire… poveri loro.
In Dio cercano il rifugio.
A Dio non chiedono il coraggio.
E di coraggio ce ne vuole tanto.
Mentre scrivo ritengo necessario inserire in queste righe il dialogo di manzoniana memoria fra don Abbondio e il Cardinal Borromeo del Capitolo XXV de I Promessi Sposi.
Solo alcuni ne comprenderanno il senso.
Per altri sarà l’ennesima scusa o un altro elemento per puntare il dito, perché, purtroppo, chi non vuol cambiare, darà sempre la colpa agli altri…
Da I PROMESSI SPOSI di A. Manzoni
CAPITOLO XXV
Il dialogo fra don Abbondio e il cardinale Borromeo
Don Abbondio stava a capo basso: il suo spiritosi trovava tra quegli argomenti, come un pulcino
negli artigli del falco, che lo tengono sollevatoin una regione sconosciuta, in un’aria che non ha mai respirata. Vedendo che qualcosa bisognava rispondere,disse, con una certa sommissione forzata:
– «Monsignore illustrissimo, avrò torto. Quando la vita non si deve contare, non so cosa mi dire.Ma quando s’ha a che fare con certa gente,con gente che ha la forza, e che non vuol sentir ragioni,anche a voler fare il bravo, non saprei cosa ci si potrebbe guadagnare. È un signore quello,con cui non si può né vincerla né impattarla…»
– «E non sapete voi che il soffrire per la giustizia è il nostro vincere? E se non sapete questo, che cosa predicate? di che siete maestro? qual è la buona nuova che annunziate a’ poveri? Chi pretende da voi che vinciate la forza con la forza? Certo non vi sarà domandato, un giorno, se abbiate saputo fare stare a dovere i potenti; che a questo non vi fu dato né missione, né modo. Ma vi sarà ben domandato se avrete adoprati i mezzi ch’erano in vostra mano per far ciò che v’era prescritto, anche quando avessero la temerità di proibirvelo».
“Anche questi santi son curiosi, – pensava intanto don Abbondio: – in sostanza, a spremerne il sugo, gli stanno più a cuore gli amori di due giovani, che la vita d’un povero sacerdote”. E, in quant’a lui, si sarebbe volentieri contentato che il discorso finisse lì; ma vedeva il cardinale, a ogni pausa, restare in atto di chi aspetti una risposta: una confessione, o un’apologia, qualcosa in somma.
– «Torno a dire, monsignore, – rispose dunque, – che avrò torto io… Il coraggio, uno non se lo può dare».
– «E perché dunque, potrei dirvi, vi siete voi impegnato in un ministero che v’impone di stare in guerra con le passioni del secolo? Ma come, vi dirò piuttosto, come non pensate che, se in codesto ministero, comunque vi ci siate messo, v’è necessario il coraggio, per adempir le vostre obbligazioni, c’è Chi ve lo darà infallibilmente, quando glielo chiediate? Credete voi che tutti que’ milioni di martiri avessero naturalmente coraggio? che non facessero naturalmente nessun conto della vita? tanti giovinetti che cominciavano a gustarla, tanti vecchi avvezzi a rammaricarsi che fosse già vicina a finire, tante donzelle, tante spose, tante madri? Tutti hanno avuto coraggio; perché il coraggio era necessario, ed essi confidavano. Conoscendo la vostra debolezza e i vostri doveri, avete voi pensato a prepararvi ai passi difficili a cui potevate trovarvi, a cui vi siete trovato in effetto? Ah! se per tant’anni d’ufizio pastorale, avete (e come non avreste?) amato il vostro gregge, se avete riposto in esso il vostro cuore, le vostre cure, le vostre delizie, il coraggio non doveva mancarvi al bisogno: l’amore è intrepido. Ebbene, se voi gli amavate, quelli che sono affidati alle vostre cure spirituali, quelli che voi chiamate figliuoli; quando vedeste due di loro minacciati insieme con voi, ah certo! come la debolezza della carne v’ha fatto tremar per voi, così la carità v’avrà fatto tremar per loro. Vi sarete umiliato di quel primo timore, perché era un effetto della vostra miseria; avrete implorato la forza per vincerlo, per discacciarlo, perché era una tentazione: ma il timor santo e nobile per gli altri, per i vostri figliuoli, quello l’avrete ascoltato, quello non v’avrà dato pace, quello v’avrà eccitato, costretto, a pensare, a fare ciò che si potesse, per riparare al pericolo che lor sovrastava… Cosa v’ha ispirato il timore, l’amore? Cosa avete fatto per loro? Cosa avete pensato?».
E tacque in atto di chi aspetta.