In Bosnia attendono ancora la verità sulle fosse comuni
Nel cimitero-memoriale di Potocari, il sobborgo di Srebrenica che ospitava la base dei Caschi blu dell’Unprofor, la forza di peacekeeping creata dalle Nazioni Unite per la sicurezza delle popolazioni durante la guerra nei Balcani, ieri è stato il giorno dei funerali di nove vittime (i loro resti sono stati riconosciuti solo quest’anno, dopo il recupero da una delle 70 fosse comuni sparse in Bosnia orientale, nella valle della Drina) del genocidio di Srebrenica (Bosnia), il più grave massacro di civili dalla Seconda guerra mondiale, compiuto dall’esercito serbo bosniaco con 8327 vittime musulmane bosniache accertate, uccise tra l’11 e il 16 luglio di 25 anni fa.
Ancora devono essere ritrovati i resti di più di mille civili e militari bosgnacchi, i musulmani di Bosnia, tra gli 8.327 trucidati dagli uomini del generale serbo bosniaco Ratko Mladic, condannato all’ergastolo per genocidio e crimini di guerra, il 22 novembre 2017, dal Tribunale penale internazionale per l’ex Yugoslavia.
Hasan Hasanović, nato il 7 dicembre 1975 a Bajina Bašta (Serbia), visse nel villaggio di Sulice, in Bosnia, 35 chilometri a sud di Srebrenica, fino a quando la famiglia si trasferì a Bratunac nel 1991. Quando la guerra bosniaca iniziò nel marzo 1992, le città nell’est del paese furono attaccate dalle forze serbo bosniache. A maggio di quell’anno, la famiglia di Hasan fu costretta a trasferirsi nell’enclave dei musulmani attorno alla città di Srebrenica, che sarebbe diventata la prima delle cosiddette “zone sicure” delle Nazioni Unite nell’aprile del 1993. Ma l’enclave di Srebrenica fu presa sotto assedio, tagliata fuori dal territorio amico e, senza elettricità, con pochissimo cibo, circa 60 mila persone si ritrovarono sotto il fuoco dell’artiglieria serba e vittime di stupri e di esecuzioni di massa.
L’enclave di Srebrenica cadde in mano alle forze serbo-bosniache l’11 luglio 1995. La presenza passiva dei militari olandesi impegnati in quei territori in una missione di pace, favorì l’Armata Serbo-bosniaca comunista, guidata dal Generale Ratko Mladić, oggi condannato per crimini di guerra, serbi che iniziarono il massacro di circa 8.000 uomini e ragazzi musulmani bosniaci.
Hasan Hasanović aveva 19 anni quando la città di Srebrenica cadde nelle forze serbo-bosniache nel luglio 1995. Sopportò una marcia di 100 chilometri attraverso un terreno ostile per sfuggire al massacro, unito alla “colonna” (formata da 10-15 mila uomini musulmani, per lo più civili disarmati) che intraprese l’estenuante marcia verso la città di Tuzla, che era sotto il controllo musulmano.
Nella confusione Hasan si separò da suo padre e da suo fratello. Voleva fermarsi a cercarli, ma sapeva che se lo avesse fatto sarebbe stato probabilmente ucciso. “Non ho potuto pensare a nulla. Mi spingevo in avanti verso la libertà, verso la sopravvivenza. Mi dicevo che se volevo vivere, avrei dovuto correre e non guardare indietro”. Hasan fuggì nei boschi con molti altri uomini, ma nel pomeriggio del 12 luglio avevano perso il contatto con la parte anteriore della colonna. I serbi erano molto vicini e i loro proiettili rimbalzavano dagli alberi tutt’intorno.
“Ero terribilmente spaventato. Mi sono imbattuto in alcuni ragazzi che conoscevo, che mi hanno dato zucchero e acqua, e questo mi ha dato la forza di andare avanti”.
Il 13 luglio gli uomini della colonna si radunarono sulla collina di Kamenica, a circa 60 chilometri da Tuzla. I serbi attaccarono di nuovo, uccidendo migliaia di persone. Hasan si nascose ancora una volta nella foresta, mentre i serbi che utilizzavano altoparlanti e uniformi rubate delle Nazioni Unite tentarono di ingannarli con promesse di cibo e sicurezza. Coloro che si sono arresi sono stati costretti a chiamare i loro parenti dal nascondiglio. Sono stati poi portati via per essere assassinati e sepolti in fosse comuni.
Il 14 luglio quelli che erano fuggiti dall’imboscata continuarono il loro viaggio attraverso la foresta verso Tuzla e, alla fine, raggiunsero il territorio libero di Zvornik. Dopo aver camminato per cinque giorni e sei notti Hasan fu condotto a Tuzla. “Non potevo credere di essere sopravvissuto”. Hasan era uno dei soli 3.500 sopravvissuti alla marcia. Alcune settimane dopo Hasan si riunì con sua madre e suo fratello minore in un campo profughi all’aeroporto di Tuzla. Il padre Aziz e il fratello gemello Huseine sono stati trovati in fosse comuni scoperte dal Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia dopo la guerra. Hasan ha seppellito suo padre nel Centro commemorativo di Srebrenica a Potočari nel 2003 e suo fratello nel 2005. Non sa ancora come e dove sono stati uccisi.
Hasan, dopo la guerra, si è laureato in Scienze Criminali a Sarajevo. Testimone instancabile del genocidio del popolo bosniaco, è Curatore del Memoriale per il genocidio di Potocari dove conduce i gruppi di visitatori nella difficile comprensione di quanto è accaduto. Vive a Srebrenica dal 2009 con la moglie e la figlia. Tornato a Srebrenica dopo il forzato esilio, Hasan Hasanović è diventato il “narratore” della tragedia sua e del suo popolo.
Dalle edizioni Gabrielli è stato tradotto in italiano il suo “Surviving Srebrenica”, un testo dove racconta i fatti che ha vissuto sulla sua pelle e quelli vissuti dalla sua famiglia durante il conflitto che ha distrutto i Balcani negli anni ‘90.
Lo avevamo intervistato a Verona in occasione del Convegno “Sopravvivere al genocidio – Srebrenica 11 Luglio 1995”.
A seguire la video intervista (Si ringrazia per la traduzione dal bosniaco Nermin Fazlagić, presidente dell’Associazione culturale bosniaca Stecak, che ha sede a Verona)
In occasione dello stesso Convegno avevamo anche la giornalista Azra Nuhefendic, dell’Osservatorio Balcani Caucaso Bosnia che ha accusato l’Ue “di avere lasciato spazio alla Russia” in Bosnia.
Ecco la video intervista.
Da parte loro i serbi non amano parlare di questa pagina di storia e vogliono che sia chiarita. Qui una nostra intervista al Senatore Jovan Palalić
MATTEO ORLANDO