Il giurista Mauro Ronco: “la famiglia è disprezzata come istituzione addirittura criminogena”
di Mauro Ronco*
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Nel giorni scorsi il giurista professor Mauro Ronco, presidente del Centro studi Livatino, ha svolto una audizione in Commissione Giustizia alla Camera dei Deputati, sui ddl in discussione in tema di contrasto all’omo/transfobia. Pubblichiamo il testo integrale della relazione scritta depositato agli atti della Commissione
Audizione davanti alla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati sui progetti di legge volti a contrastare l’omofobia e le discriminazioni fondate sull’identità di genere: considerazioni sulle proposte di legge nn. 107, 569, 868, 2155, 2255 – Modifiche agli artt. 604 bis e 604 ter c.p. in materia di violenza o discriminazione per motivi di orientamento sessuale o identità di genere
Sommario: I. Nessun obbligo internazionale o europeo di incriminazione. – II. Le discriminazioni razziali. – III. I reati d’odio: contrasto con il principio del diritto penale del fatto (art. 27 e 3 Cost.). – IV. La criminalizzazione del diverso. – V. Violazione della libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.), della libertà di associazione (art. 18 Cost.) e della libertà di religione (artt. 19-20). – VI. Ulteriore e inaccettabile estensione della normativa punitiva. – VII. Creazione, costituzionalmente illegittima, di disparità di trattamento tra situazioni simili o, addirittura, tra situazioni che richiedono una più incisiva tutela rispetto alle situazioni indicate nelle proposte di legge.
I. NESSUN OBBLIGO INTERNAZIONALE O EUROPEO DI INCRIMINAZIONE
Va detto in primo luogo che non sussiste alcun obbligo di incriminazione della diffusione di idee volte alla discriminazione fondata sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere. Viene meno un motivo spesso addotto per introdurre negli artt. 604 bis e 604 ter le implementazioni proposte nei vari disegni di legge oggetto di considerazione. Vanno al riguardo tenuti in considerazione due aspetti che sconsigliano le implementazioni: per un verso, le stesse amplierebbero di molto la prensione da parte della legge penale di comportamenti potenzialmente valutabili come penalmente illeciti, aumentando in maniera significativa il contenzioso giudiziario penale facendolo scivolare verso una sorta di magistero etico; per altro verso, l’incremento delle incriminazioni penali si pone in contrasto radicale con una regola scientifica di razionalità del diritto penale, espressa con la formula dell’extrema ratio.
II. LE DISCRIMINAZIONI RAZZIALI
L’attuale art. 604 bis c.p. è modellato sul concetto dei discorsi e dei reati d’odio. Tale struttura di fattispecie è sorta dall’esigenza di contrastare le discriminazioni razziali, per le quali era intervenuto il vincolo sovranazionale di cui alla Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, aperta alla firma a New York il 7 marzo 1966. Alle discriminazioni razziali sono state assimilate, per ragioni di stretta analogia, le discriminazioni su basi etniche, nazionali e religiose. Eventuali discriminazioni in relazione ai profili dell’orientamento sessuale sono rimaste estranee all’obbligo di incriminazione.
III. I REATI D’ODIO: CONTRASTO CON IL PRINCIPIO DEL DIRITTO PENALE DEL FATTO (ARTT. 27 E 3 COST.)
I reati d’odio, previsti nella struttura dell’art. 604 bis, che si vorrebbe oggi estendere, sono profondamente contrari al principio del diritto penale, che postula alla base del reato un fatto offensivo nei riguardi di un bene sociale oggetto di esperienza concreta.
Si confronti il reato d’odio, che oggi si vorrebbe estendere, di cui all’art. 604 bis, con il reato di cui al § 130 del codice penale tedesco.
Il nostro reato recita nella lett. a), che prevede la fattispecie più ampia e inaccettabilmente aperta: chiunque propaganda idee … ovvero istiga a commettere atti di discriminazione per motivi d’odio razziale, etnico, nazionale o religioso e, nelle proposte, fondato sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere, è punito.
Il § 130 tedesco prevede invece il reato nelle seguenti due forme: 1. Chiunque, in maniera idonea a causare un disordine per la pubblica pace, incita all’odio contro un gruppo nazionale, razziale, religioso o etnico oppure contro sezioni della popolazione o individui sulla base della loro appartenenza a uno dei predetti gruppi o settori di popolazione oppure richiede misure violente o arbitrarie contro di loro …; 2. Viola la dignità umana di altre persone insultando o diffamando uno dei predetti gruppi o sezioni di popolazione o individui sulla base della loro appartenenza ad uno dei predetti gruppi o sezioni di popolazione … è punito.
La struttura delle due fattispecie è profondamente diversa.
Il § 130 individua un delitto di evento. La condotta deve provocare un effetto dannoso per la pace pubblica. Il reato del codice italiano è un delitto basato esclusivamente sui motivi ad agire.
Diversa è la funzione svolta nelle due fattispecie dal concetto di odio: nel codice tedesco la condotta istiga la generalità dei cittadini all’odio contro i gruppi o gli appartenenti ai gruppi protetti; nel codice italiano l’odio è il movente dell’agire.
Il reato tedesco è un reato in cui la condotta è volta a provocare odio o a richiedere misure violente o arbitrarie di discriminazione. Nell’art. 604 bis, lett. a), la manifestazione di idee è rivolta soltanto alla commissione di atti di discriminazione. L’istigazione a commettere atti di violenza è prevista soltanto nella lett. b) dell’art. 604 bis c.p.
Nel codice penale tedesco il delitto è ancorato al principio del fatto. Nel diritto italiano, manca questo fondamentale ancoraggio.
Il reato del codice italiano, certamente nella struttura della lett. a), è un mero reato d’opinione basato sul presunto movente d’odio.
In quanto completamente disancorato dal fatto, cioè da un evento di danno provocato da un comportamento volontario, esso trova fondamento nella disposizione interiore di un soggetto; disposizione interiore indiscernibile da parte di un osservatore esterno. Si tratta di un reato costruito senza una idonea base empirica accertabile dal giudice: “ti punisco perché ti attribuisco una malvagia disposizione d’animo, l’odio appunto”.
L’eventuale estensione del reato d’odio alla manifestazione di idee per motivi di orientamento sessuale o di identità di genere segnerebbe il passaggio abnorme del diritto penale verso un modello che punisce la manifestazione di idee per correggere gli individui in ordine alla loro disposizione interiore.
Non v’è alcuna base empirica per distinguere tra giudizi espressi sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere per ragioni d’odio, da un lato, ovvero, da un altro lato, per ragioni religiose, metafisiche, etiche e sociali.
Qui emerge tutta l’assurdità della creazione di un reato basato sui motivi d’odio. Chi esprime opinioni critiche sulla tendenza omosessuale per ragioni metafisiche o sugli atti omosessuali per ragioni etiche, psicologiche, mediche o sociali, non per ciò è indotto a tali critiche per ragioni d’odio. Anzi, il più delle volte, il motivo per cui esprime tali opinioni risiede in ragioni del tutto contrarie allo stato interiore dell’odio.
L’assurdità ancor maggiore sta nel conferire a un giudice il compito di decidere se una determinata opinione sia stata espressa per convinzione scientifica, per convinzione religiosa, per scelta culturale, per tradizione familiare, ovvero, tutto al contrario, per odio.
Ma per odio verso chi? Verso una tendenza, un orientamento, una dottrina, una opinione o verso delle persone in carne e ossa? Anche qui la distinzione tra l’oggetto del presunto stato d’animo d’odio non può essere precisato se non attraverso una critica delle intenzioni, del tutto inaccettabile nel diritto penale poiché non è il giudice che può discriminare tra le intenzioni buone e quelle cattive.
Determinate affermazioni in ordine alla corrispondenza di determinate tendenze alle inclinazioni naturali, ovvero in ordine alla eticità di determinati atti implica un giudizio negativo sulle affermazioni contrarie. Può mai valere questo giudizio negativo a configurare una discriminazione per motivi d’odio? No assolutamente! Fare di una presunta intenzione, indiscernibile dall’osservatore esterno, la base di un’incriminazione penale contrasta con i principi essenziali del diritto penale del fatto.
La mutuazione all’interno del mondo normativo di categorie storiografiche e filosofiche (dignità, odio, vulnerabilità) elaborate per la narrazione e la comprensione degli eventi storici e dei rapporti sociali è piena di grandi rischi di eticizzazione impropria e occulta del diritto penale in ragione della radicale diversità di funzione del lessico storiografico o filosofico e del lessico giuridico: il primo, invero, è funzionale alla comprensione degli eventi; il secondo è funzionale alla loro punizione.
IV. LA CRIMINALIZZAZIONE DEL DIVERSO
La società democratica è caratterizzata dalla libera circolazione delle idee e dal libero confronto di coloro che le sostengono, senza che possa essere colpevolizzato, addirittura con la minaccia della pena, alcuna persona, a meno che le idee si trasformino in azione, propria o altrui, diretta a provocare un danno o un pericolo di danno ad altre persone.
Costruire reati di odio – tra cui rientra la c.d. omofobia e tra cui potrebbero rientrare, a breve, secondo una logica punitiva delle opinioni non assiologicamente neutrali, l’islamofobia, la cristianofobia, la giudeofobia, ecc. – significa costruire reati sulla base di un pregiudizio discriminatorio, che separa gli uomini e le donne in due categorie, che sarebbero radicalmente incompatibili tra loro. Da un lato la categoria di coloro che odiano e, dall’altro, la categoria di coloro che, non odiando, si ritengono in dovere di promuovere nei confronti dei primi un giudizio etico e giuridico di radicale e assoluta immoralità e antigiuridicità allo scopo di punirli e di rieducarli.
Questa separazione, che sta alla base della narrazione culturale e letteraria che ha indotto alla creazione dei reati di odio, separazione tra i malvagi, quelli che odiano, e tutti gli altri, che invece non odierebbero e si limiterebbero a pretendere la punizione dei primi, contiene in sé un germe di totalitarismo dispotico cui è inerente il rischio di una discriminazione sociale potenzialmente drammatica, consistente nella disumanizzazione per via giudiziaria di una parte della popolazione, dapprima numericamente modesta – sarebbero odiatori soltanto gli omofobi – poi sempre più vasta: potranno diventare odiatori meritevoli di pena gli islamofobi, i cristianofobi, i giudeofobi, fino a provocare una divisione inimmaginabile tra due classi sociali individuate su base etica. Da un lato, coloro che vanno marchiati con la pena per l’odio di cui sono personalmente intrisi; dall’altro, coloro che, tramite la legge e, quindi, avvalendosi di uno strumento che è dell’intera società, esigono la condanna penale nei confronti di coloro che manifestano ragioni di critica contro determinate identità sessuali, religiose, economiche o di classe.
Introdurre reati basati sul preteso odio dell’autore significa introdurre nell’ordinamento un principio in forza del quale alcuni, per il fatto del loro odiare, sono considerati soggetti di secondo rango. Ove è evidente l’inversione in “cattivo” dell’apparente principio “buono” che sta alla base della richiesta di punizione degli omofobi: la creazione di una categoria di persone discriminate per il loro odiare empiricamente indiscernibile.
La legge penale non si può permettere di accusare e di condannare perché taluno odia ipoteticamente una determinata identità sessuale, religiosa, economica o politica.
Anzitutto, come già si è detto, perché l’odio è uno stato soggettivo assolutamente indiscernibile da una legge o da un giudice. In secondo luogo, perché l’odio non è un motivo per agire, bensì un movente dell’azione. Quindi si agisce non per motivo dell’odio, ma si agisce per movente dell’odio, sospinti da uno stato transitorio dell’animo. Mai l’odio è stato assunto dalla legge come motivo integratore di una circostanza aggravante. I motivi che aggravano un reato sono quelli abietti o futili, che ricevono il contenuto da una valutazione oggettiva circa il loro disvalore; non i motivi d’odio, che afferiscono esclusivamente a uno stato d’animo.
L’odio è il movente delle azioni volontariamente compiute per distruggere un bene. È il substrato dell’animo, inerente ad ogni azione malvagia. Costruire quindi i reati di odio significa travalicare i confini di ciò che è alla legge e al giudice ragionevolmente possibile fare. Significa costruire dei reati imperniati sul tipo interiore di autore: il tipo del soggetto odiatore.
Con ciò la legge penale perverrebbe alla disumanizzazione di categorie sempre più vaste di soggetti, dapprima di coloro che hanno paura di alcune categorie di diversi, poi di altre, poi di altre ancora. Tutti coloro che manifestano le loro paure appellandosi al valore della propria identità sarebbero degli odiatori, da disumanizzarsi attraverso il monito del precetto penale e da rieducarsi per il tramite dell’esecuzione della pena.
Il diverso diventa l’odiatore, destinatario della riprovazione normativa e, per suo tramite, della riprovazione di tutta la collettività. Non ci si rende proprio conto che attraverso la creazione dei reati d’odio l’ordinamento rischia di trasformarsi esso stesso in causa di discriminazione tra le persone, ove i discriminati dalla legge diventano coloro che manifestano convinzioni forti in ordine alla loro identità.
Né va trascurato l’effetto criminogeno di potenziali norme che intendessero incriminare i c.d. reati d’odio. Non si vuole certo negare che esistano nella società soggetti definibili letterariamente come omofobi, eterofobi, islamofobi, cristianofobi o giudeofobi. La sottoposizione delle persone caratterizzate da tali note al rischio penale non può che provocare, in una certa parte di questi soggetti, per impulso reattivo, il passare all’atto delle tendenze interiori, eventualmente venate di odio. Questa è la legge quasi meccanica della criminalizzazione. Essa fa scattare atti reattivi in una certa quota di soggetti che si sentono perseguitati nella loro identità.
V. VIOLAZIONE DELLA LIBERTÀ DI MANIFESTAZIONE DEL PENSIERO (ART. 21 COST.), DELLA LIBERTÀ DI ASSOCIAZIONE (ART. 18 COST.) E DELLA LIBERTÀ DI RELIGIONE (ARTT. 19-20)
Già si è evidenziato sub II che le implementazioni proposte introdurrebbero nell’ordinamento una fattispecie generale di reato d’opinione basata sul presunto movente d’odio. Questo tipo di disposizione viola l’art. 21 Cost., nonché le altre disposizioni fondamentali menzionate in rubrica e, in particolare, la libera espressione delle convinzioni religiose, delle opinioni scientifiche e storiche e della libertà di associazione.
Taluno, in maniera semplicistica, allo scopo di legittimare l’implementazione punitiva di cui alle proposte, sostiene che la Costituzione non può legittimare l’odio.
Le cose non sono così semplici. La Costituzione promuove la solidarietà (art. 2 Cost.) e tutela l’identica dignità di tutte le persone (art. 3 Cost.), ma non prescrive un codice di convinzioni legittimamente sostenibili, proibendone altre. E allora non deve essere svalorizzato il fondamentale art. 21 Cost., che tutela l’espressione di tutte le opinioni che non abbiano in se stesse, per le modalità espressive e per la minaccia almeno implicita rivolta a terzi, un effetto diretto di istigazione a commettere delitti.
Già con riferimento alle fattispecie di istigazione presenti nel codice penale (artt. 414 e 415), dottrina e giurisprudenza hanno in epoca risalente evidenziato il rischio che tali norme dessero rilevanza penale a mere manifestazioni del pensiero non allineato, che debbono invece ritenersi legittime nell’ambito di un confronto anche acceso e conflittuale tra idee e convinzioni diverse, tutte tutelate dall’art. 21 Cost.
Varie sentenze costituzionali hanno riconosciuto la necessità che la norma penale individui le connotazioni che consentono di distinguere una mera manifestazione del pensiero da una «quasi azione» o da un «principio di azione» di ulteriori fattispecie di reato. Basterebbe ricordare la sentenza 23.4.1974, n. 108 della Corte costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità del reato di istigazione all’odio tra le classi sociali (art. 415 c.p.) – l’unica fattispecie di odio presente nel codice – «nella parte in cui non specifica che tale istigazione deve essere attuata in modo pericoloso per la pubblica tranquillità».
La stessa Corte ha rielaborato struttura e funzioni del delitto di apologia di reato (art. 414, 3° co.) nelle forme di una istigazione indiretta, nei termini di un comportamento che deve essere «concretamente idoneo a provocare la commissione di delitti» (C. Cost., 4.5.1970, n. 65).
VI. ULTERIORE E INACCETTABILE ESTENSIONE DELLA NORMATIVA PUNITIVA
Le varie proposte di legge sono imperniate sul concetto di odio fondato sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere.
La norma si appalesa, quindi, non soltanto come diretta alla ipotetica tutela dell’omosessualità o della transessualità, bensì di tutte le forme di orientamento sessuale e di tutte le dottrine o procedure dirette a distaccare l’identità sessuale della persona dall’identità biologica allo scopo di favorire la creazione di un’identità psicologica o sociale fluida e indeterminata.
In questo modo, sotto il pretesto di arrecare una maggiore determinatezza alla norma, si intende porre sotto lo scudo della protezione penale tanto i vari orientamenti sessuali, ancora oggi valutati come disturbi della personalità, come la tendenza voyeuristica, la tendenza sessuale masochistica, la tendenza sessuale sadistica, la tendenza sessuale feticistica, quanto le ancora oggi assai controverse teorie del gender, alla cui stregua l’identità della persona non è determinata dalla biologia, bensì dalla libera scelta dell’individuo.
La non condivisione, più o meno scientificamente argomentata, di alcuni orientamenti sessuali e la loro condanna, per esempio dell’orientamento masochistico o sadistico, da parte di una larga parte della collettività, che ravvisa in essi una potenziale fonte di violenza contro la persona, potrebbero essere addirittura sindacate in sede penale come espressione di odio verso coloro che se ne facessero sostenitori in una dimensione di assoluta autodeterminazione sessuale.
L’effetto paralizzante della stessa discussione scientifica in ordine alle problematiche del gender sarebbe devastante sul piano culturale, creando una sorta di riserva protetta per coloro che sostengono determinate teorie e propongono forme educative corrispondenti alle teorie relative alla fluidità dell’identità sessuale.
VII. CREAZIONE, COSTITUZIONALMENTE ILLEGITTIMA, DI DISPARITÀ DI TRATTAMENTO TRA SITUAZIONI SIMILI O, ADDIRITTURA, TRA SITUAZIONI CHE RICHIEDONO UNA PIÙ INCISIVA TUTELA RISPETTO ALLE SITUAZIONI INDICATE NELLE PROPOSTE DI LEGGE
Vi sono nella cultura contemporanea delle tendenze violentemente contrarie ad alcuni istituti e valori fondamentali per l’educazione dei bambini e per la pace sociale. Ci si riferisce, in particolare, all’istituto della famiglia. Vi sono poi delle condizioni di particolare vulnerabilità in cui si trovano molte persone malformate, disabili, anziane, malate della sindrome di Alzheimer ecc.
Ora vi sono molte pubblicazioni ispirate a un profondo odio nei confronti della famiglia, disprezzata come istituzione addirittura criminogena. Una certa parte della cultura manifesta un odio particolare verso la famiglia o, comunque, l’unione stabile tra un uomo e una donna, in quanto entrambe le forme sarebbero espressione della triviale tendenza dell’uomo e della donna di unirsi sessualmente a scopo generativo e non esclusivamente ludico. Si tratta di teoriche, talora ammantate da un certo culto ambientalistico ostile alla centralità dell’uomo nel creato, che odiano, sulla falsariga di certe tendenze gnostiche antiche, la generazione tramite l’incontro del sesso maschile con quello femminile, in quanto incontro aperto tragicamente a protrarre sulla terra il dominio del demiurgo creatore. Anche queste forme di odio, peraltro rivolte a un’istituzione fondamentale per la sopravvivenza stessa della società e per la promozione della pace sociale, dovrebbero, sulla base dei principi che ispirano le proposte legislative in oggetto, essere ricomprese sotto una previsione penale.
Vi sono, poi, alcune tendenze, che si manifestano pubblicamente in teorie e in dichiarazioni, che propagandano l’eutanasia, anche non volontaria, nei confronti delle persone incapaci di libera autodeterminazione, gli infanti malformati, i gravi malati mentali, gli anziani in condizione di incapacità di intendere e di volere, i malati di Alzheimer, gli stessi malati in condizioni non più risanabili.
Laddove si intendesse la tutela offerta all’orientamento sessuale e all’identità di genere come una tutela rivolta a soggetti vulnerabili, si dovrebbe a maggior ragione fornire una tutela penale anche per stigmatizzare le opinioni di odio delle istituzioni familiari, nonché di tutte quelle manifestazioni di pensiero che inducono a togliere la stessa esistenza per via eutanasica a persone incapaci di intendere e di volere o che sono gravemente disabili o inferme.
* Professore emerito di Diritto Penale nell’Università di Padova
Avvocato