Renzo Puccetti: “peccato contro la virtù della fortezza cedere alla conversione forzata”
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UN CERTO MODO DI RAGIONARE RIVELA UN DESERTO NELLA PROPRIA FORMAZIONE TEOLOGICO MORALE
C’è un modo di ragionare in certe persone cattoliche che purtroppo rivela un deserto nella propria formazione teologico morale (e con questo non intendo esprimere alcun giudizio sulle persone che possono essere le più pie e sante).
Ancora una volta parliamo di conversioni forzate. L’idea base di costoro è: siccome temevi per la tua vita, la tua conversione non è valida. E su questo hanno perfettamente ragione e con essi concordo (la fede esige la libertà di adesione). Ma poi commettono un grave errore inferendo che, poiché la conversione non era valida perché non libera, l’atto di ripudio della fede non è un atto moralmente rilevante.
In realtà non è assolutamente così, per due ragioni: In primis l’invalidità della conversione non elimina il peccato contro la virtù della fortezza (per una sua definizione vedi CCC 1808).
Inoltre solo eccezionalmente la volontà è totalmente annullata tanto da renderci irresponsabili delle scelte e dunque senza colpa se la scelta è per il male.
Se così fosse, anche la scelta contraria sarebbe moralmente irrilevante ed i martiri non potrebbero essere Santi.
I 15 cristiani portati sulla spiaggia e sgozzati dai terroristi islamici hanno compiuto un atto tanto moralmente rilevante scegliendo di non abiurare la loro fede in Gesù Cristo che li ha qualificati come martiri per la fede e ne assicura l’entrata in paradiso.
La valutazione della libertà nella scelta connota il giudizio del confessore il quale sarà chiamato a valutare la colpa, ma si tratta di una cosa che inizia quando colui che ha abiurato si rende conto di avere peccato e domanda il perdono di Dio attraverso il Sacramento della confessione. Ed il sacerdote, in quello specifico caso, sarà chiamato ad esprimere un giudizio prudenziale sulla colpa del penitente che non sarà, se non eccezionalmente, qualcosa di tutto o nulla.
Questo riguarda pressoché ogni nostro atto moralmente rilevante. Per quasi tutti i nostri peccati entrano in gioco scusanti ed aggravanti. Per quasi ogni nostra azione malvagia potremmo invocare che la nostra volontà è stata sopraffatta. Pur con tutte le differenze dei beni in gioco, l’adultero può dire che mentre tradiva il coniuge il suo atto non era colpevole perché travolto dai sensi, il ladro perché senza altro lavoro, lo stupratore dall’ipersessualità compulsiva che lo affligge e il pedofilo dalla cicatrice psicologica di essere stato a sua volta abusato.
Ecco, tutti costoro potrebbero dirmi: “vorrei vedere te cosa avresti fatto nella mia situazione”. Certo, avrebbero ragione a dirlo, solo Dio può giudicare la moralità di una persone, a questo si riferiscono le parole evangeliche “non giudicate, se non volete essere giudicati”, ma questo cancellerebbe forse il fatto che è stato commesso l’adulterio, il furto, lo stupro e la violenza su un bambino? Farebbe svanire il doveroso giudizio su quanto commesso? Dissolverebbe il peccato?
Per questo Gesù ci insegna a pregare il Padre dicendo: ”Et ne nos inducas in tentationem“, che vuole dire non metterci alla prova, e lo dobbiamo domandare perché la nostra fede è debole e rischiamo di peccare.
Ogni nostro atto si colloca in una situazione. Fare dipendere la moralità degli atti da essa corrisponde ad una corrente teologica denominata “etica della situazione“, o “situazionismo“ che vede in John Fletcher un suo fondatore e oggi sta conoscendo un revival nell’ambito del più ampio smottamento verso il protestantesimo della teologia cattolica. Tuttavia se questi spesso inconsapevoli adepti cattolici avessero letto l’insegnamento di San Giovanni Paolo II in Veritatis splendor, non cadrebbero nella suadente menzogna di questa eresia morale.